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giovedì 2 settembre 2010

Uno, il Tutto. (terza parte)

Post n°27 pubblicato il 25 Agosto 2010 da paulget
I cavalieri erranti son trascinati al nord..
                                                   (P.Gori)







Mentre la corrente lo trascinava a fondo,  poteva vedere  la scarpata delinearsi in tutta la sua maestosità facendo diventare il relitto sempre più piccolo, poi anche quella vista svanì e fu circondato dal fosco delle tenebre marine.
In un attimo capì.
Fra poco sarebbe finito tutto. Un lampo, squarciò la mente, facendo riaffiorare gli scritti sulla morte per annegamento che aveva letto e alle sensazioni che gli davano, quando cercava di concepire con la fantasia il momento in cui il riflesso incondizionato della massa di cellule affamate del corpo portava ad aprire la bocca e a inspirare l’acqua alla ricerca spasmodica di ossigeno che non avrebbe mai trovato.
Ora lo stava per toccare con mano.
Il bisogno di aria si fece sempre più impellente, lottava per non cedere all’impulso animale che lo sovrastava e per un attimo pensò se non fosse il caso di farlo prima possibile per porre a termine una sofferenza inutile.
Stava scendendo sempre più in fondo in una tenebra fredda che ormai non sentiva più, si lasciò andare, rilasso i muscoli, e un attimo dopo la sua bocca si aprì. Un bruciore intenso pervase il suo petto, la testa sembrava compressa in una morsa sempre più stretta, poi fu il buio.

Stava salendo, salendo, sempre più in alto stranamente, una luce lontana brillò sopra di lui, venne preso in un vortice luminoso che lo trascinava sempre più su.
Ebbe la sensazione che il viaggio, più che dentro lo spazio, avvenisse attraverso il tempo e che si rivolgesse all’indietro mentre continuava a salire e a ridiscendere, salire e ridiscendere e in quel momento capì che il percorso che stava facendo era come un respiro, tra pieni e vuoti, tra luce e buio, tra alto e basso, tra paura e speranza.. la luce andava e veniva, andava e veniva..poi, di colpo, venne risucchiato verso l’alto.

L’essere lo stava guardando con due occhi curiosi e lievemente ironici che si posavano su di lui come se guardassero un povero gattino spaventato.
Sembravano un uomo come lui, fatto come lui.
Tuttavia, l’Essere, non sembrava pensasse la stessa cosa di lui.
Infatti, lo guardava con un’aria fra il curioso e lo spaventato.
Riuscì a mettere a fuoco la sua coscienza, la mente si rimise in funzione, i sensi lentamente ripresero forma e sostanza e lo sentì bisbigliare qualcosa, un qualcosa di sempre più forte, finche il bisbiglio diventò parola.
“ Tutto bene?”
 Vide l’uomo guardare verso i suoi piedi.
Spostò lo sguardo anche lui..
In un attimo fu desto e capì. Stava studiando con attenzione la sua muta, la sua maschera e le sue pinne.
Provò a muovere un piede, che fece guizzare con un balzo e retrocedere di un po’ di metri  l’uomo. Mosse un braccio, senza problemi, quindi, puntando le mani a terra..a terra?!..
Era terra, più precisamente sabbia, sabbia normale, una semplice sabbia color nocciola.
Che cosa stava succedendo, o meglio, cosa era successo. E cosa stava accadendo ora.
Con le mani che sprofondavano morbidamente nella sabbia tiepida, si mise seduto.
Si tolse la maschera e si trovo circondato da....mare.. ma cosa diavolo..il vento, un alito di vento si posò sul suo viso, e tutt’intorno alberi cielo, orizzonte, uccelli, rumori, odori.
Per un attimo si vide, seduto con la muta, e con le due pinne che salivano dai piedi e una sensazione ironica lo pervase.
L’uomo che non smetteva di scrutare da dietro il muro di sconcerto e timore che, tuttora esistente, lentamente stava svanendo, si riavvicinò.
I due si guardarono dopo lo smarrimento iniziale. Poi, l’uomo in piedi disse: “Chi sei?”-con il tono di un “Cosa sei?”.
Si alzò lentamente, sfilò goffamente le pinne rischiando di cadere e, mentre sfilava la parte superiore della tuta, sentì un calore delizioso sulla pelle, alzò gli occhi al cielo e vide che era chiaro ma di un colore strano, lattiginoso, il sole non splendeva come il solito, a dire il vero non si vedeva neppure, ma una luce calda sembrava pervadere il cielo in modo uniforme.
Eppure non si vedevano nubi, ma neanche il cielo sereno, solo un colore opalescente e omogeneo fino all’orizzonte. Mentre sfilava anche il resto della muta, gli riaffiorarono alla mente i ricordi, confusi, la corrente, il relitto, la sensazione di paura. Poi quel turbine che invece di portarlo ancora più in basso negli abissi lo aveva scaraventato di nuovo sulla spiaggia. Già, ma su quale spiaggia.
in superficie, sei stato spinto da una corrente fino sul fondo come mai sei in superficie di nuovo?
dal fondo del mare si sale in superficie…non dalla superficie…
I pensieri si dilatavano come una catena, un anello legato all’altro, una cartella dopo l’altra , in una sorta di intersezioni d’insieme raggiunsero un punto, una barriera, una gabbia da dove non potevano fuggire e tornavano a contrarsi, per tornare all’origine, ed espandersi di nuovo fino ad incontrare ancora quel muro invalicabile. Il suo fisico rispose immediatamente, non gli riusciva di portare a termine il respiro, un senso di intorpidimento gli agguantò le braccia, il senso di confusione in testa  montava sempre più portandolo sull’orlo dello svenimento per poi afferrarlo sul precipizio e  ricominciare daccapo. Poi, il cervello trasmise i suoi segnali ai blocchi di sicurezza che si attivarono immediatamente. E fu nuovamente il buio.

Arrivato in cima al ripido pendio di sabbia, l’uomo con in spalla un corpo inanimato e nell’altra degli strambi vestiti  si trovò davanti ad un carro colmo di attrezzi vari, appoggiò a terra la strana zavorra che lo appesantiva facendo sprofondare i suoi stivali nella sabbia, gettò a terra la muta, si guardò in giro. Un silenzio fatto di uccelli, grilli e vento leggero, faceva da corona allo sterminato mare di fuscelli alti fino a un paio metri che, come ogni estate inoltrata, stava per fiorire, lo tranquillizzò.
Prese una pala e si mise a scavare.

Appena la piccola fossa nel terreno, reso morbido grazie all’acqua arrivata dalla terra la notte seguente, fu abbastanza fonda, si chinò, prese i vestiti dell’uomo e, guardandoli ancora per un attimo li getto nella buca e ricoprì tutto in velocità. Controllò che il ragazzo portato dal mare respirasse ancora, lo mise sul carro fra bastoni, falci, e sacchi vuoti, lo coprì con un lenzuolo di canapa che usava, a seconda dei momenti, come letto disteso sull’erba o tovaglia per le pause del pranzo, salì sul carro, e, afferrate le redini del giovane cavallo si avviò lungo la strada di acciottolato bianco che costeggiava le piantagioni di canapa.


A volte quando ci si trova in difficoltà, al massimo della delusione, quando il pozzo in cui sei caduto sembra non proseguire più verso il fondo, e finalmente senti la terra compatta sotto i piedi, allora, proprio in quel preciso istante, come per una sorta di alchimia la paura, la delusione, si trasforma in fiducia. E ci si affida a tutto e a tutti.
Quanto questo sia utile o dannoso non è dato mai di saperlo in anticipo.
Ed è seguendo questa sensazione di fiducia, questa percezione, che lui, riaperti gli occhi, rimase in silenzio sotto quella specie di lenzuolo che lo copriva, ascoltando l’uomo fischiare sobbalzando fra tintinnii di ferri, pale e altri attrezzi sulla strada dell’ignoto.

Uno, il Tutto. (quarta parte)


Stava ritto in piedi alla finestra dal vecchio telaio, quadrati di mare turchese increspato di vento, repentine raffiche arrivavano imponenti a incontrare il mare verde di foglie chiazzate di giallo, in una strana danza del caos, sbattute, contese da refoli distinti ma figli della stessa forza, folate di sale sul cortile e sulla fontana di acqua tremula portano odori forti di  fieno e fichi e terra umida, più forte l’odore di zenzero, della donna  lasciata  sotto le lenzuola.
Contrasti di pensieri confusi da sogni sempre più penetranti, vividi di sensazioni riaffioranti in quei momenti sempre più lunghi, davanti a quel dipinto di canapa al vento. Stava lì. Una volta di più il ricordo lontano, confuso, della spiaggia e di quell’incontro col nuovo suo mondo, quello del dopo, della mente nuova, lavagna priva del gesso del passato, foglio nuovo da scrivere. E ci scriveva da un po’. Fiorivano gli alti fusti di fine estate quando il nuovo ordine di cose fluì nella sua casta memoria e ora un nuovo mare di gialli fiori di sativa, si donava al vento del sud.
 “Esci già?”
Il fruscio di lenzuola placò i suoi pensieri, la voce della ragazza lo riportò al presente.
Si passò la mano sul volto ispido a cancellare i pensieri e i profumi del vento scomparvero scacciati dal dolce e speziato profumo.
“Resta pure a letto, ricordati di prendere i rotoli prima di uscire” le disse.
Lei si alzò sui gomiti fra scrocchi secchi del giaciglio con lo sguardo assonnato e sorpreso. “Sono già pronti? E quando li hai scritti?”
Lui si girò avviandosi verso la porta della stanza i cui stipiti a malapena contenevano le spalle enormi, prendendo la bocca ruvida fra la mano a sentire una volta in più quell’inebriante profumo. “Ho sognato i cavalli.”  E senza aggiungere altro uscì.
L’aria già tiepida della mattina si insinuava fra i suoi vestiti mentre il gatto, di ritorno dalle scorrerie notturne si strusciava sui suoi stivali prima di saltare sul davanzale e raggiungere la scodella già colma Il rumore del mare arrivò improvviso da dietro la collina di rovi chiazzati di grosse more, il suo pensiero era più pesante quella mattina, mentre si avviava per il sentiero rubato al bosco di pini che costeggiava  la ripida discesa verso l’azzurro in subbuglio.
La casa come sempre gli venne incontro all’improvviso, l’amplesso del glicine al muro opposto al mare, fuori, già indaffarato intorno al suo carro di utensili  vari, stava Murdo,  braccia vigorose spostavano, alzavano, caricavano tirando corde a bloccare il tutto, vicino a lui il figlio Caolan con la mula da tiro come sempre pronta con il carico di fusti di canapa destinati alla teleria,  Glenda, come sempre d’intorno al pollaio.
Sogni scomposti, vivi, come ogni giorno avevano lasciato il posto alla realtà. Quale filo sottile divide i due mondi..

Tutto come ogni giorno, nessuna nota stonata  in una composizione certa, affermata. Conseguente il gesto di mano, mentre lampi di sogni spazzarono la realtà fermandosi, fugace momento, sparendo, oscurati da razionalità padrona di quel pezzo di tempo. Consueto momento di mille risvegli.

Passati i cespugli di ginestra la sabbia cedeva al calare degli stivali , sempre più in fondo, sempre più secca sulla strada del vento, per divenire umida di marea un passo più avanti.
Si fermò così, con la faccia al vento a scrutare il mare, cercando il ricordo, trovando il presente.
Vecchio libro in nuove mani, dove leggere le storie, sensazioni, impressioni di oggi. Cercava, a dire bene, con poco coraggio, come un libro già letto, paura di riaprirlo per non confondere le sensazioni di allora con quelle di oggi.

Dopo i primi giorni smarriti, la fermezza di Murdo lo aveva fatto nascere a nuova vita, ordinando quel vuoto caos ormai lancinante,
 riaffiorato dai flutti del nulla pronto a scrivere il “futuro” passato.
Tempo ne era passato da quel carro ciondolante di pale, di falci, di zappe con cui era giunto alla casa sul mare.
Una nuova fioritura di canapa, ma il senso in lui, di quel periodo passato sembrava lunghissimo..lunghissimo..? Lampo improvviso falce di luce a troncare i pensieri..
Sembrava lunghissimo..con tutta la forza che trovò cercò di aggrapparsi a quel pensiero sempre più flebile sempre più insensato..Lunghissimo rispetto a cosa
Immagini, lampi. Alberi dai rami tagliati. Un vecchio fra le sue braccia ansimante alzato su un fianco. I suoi muscoli indolenziti. Letti affiancati. Uno spazio fra i letti sporco e polveroso. Semi tostati passati nello zucchero colorato di rosso dentro un disegno a mosaico.
Una rosa…
E il suo nome gridato,  di nuovo il vento del presente il profumo del mare, il rumore dei pensieri sempre più lontano come un treno passato troppo in fretta per poterci salire. Una volta di più.

Si sentì chiamare di nuovo.
Con passo spedito rifece la strada verso la sabbia più secca, passo oltre i cespugli incrociando il carro stracolmo di attrezzi con l’amico in attesa, una volta di più.

(continua)

Uno, il Tutto. (prima parte)

Uno, il Tutto. (prima parte)

Post n°29 pubblicato il 25 Agosto 2010 da paulget
Come abbiamo visto, il fondo dell’oceano sembra proprio un vero e proprio “altro mondo” sotto il mare,
con scarpate, montagne, vallate, catene montuose intere e pianure sconfinate.
Dopo la piattaforma continentale troviamo la scarpata o pendio. La piana abissale è quella parte della provincia oceanica che si origina ai piedi della scarpata continentale, quindi, termina con le depressioni del fondale da dove partono le fosse abissali che possono raggiungere profondità di migliaia di metri  ma  questo sarà il tema che affronteremo nella giornata di domani.
Per oggi, se siete d’accordo, ci salutiamo qui.
Vi auguro una buona serata.”



“Accidenti!”
L’uomo si alzò dalla sedia dimenticando, come il solito, di alzare la tavoletta reclinabile inserita nel bracciolo destro e una pioggia di fogli, penne e graffette andarono a coprire il pavimento di linoleum ai suoi piedi e sopra i piedi della vicina di posto.
“Scusami” -disse timidamente mentre piegato su un ginocchio raccoglieva il materiale- è già la seconda volta oggi.
La donna, lo guardò per un attimo,  poi scoppiò in una risata che sollevò un sipario di labbra rosse cangianti su un sorriso radioso, quasi discordante dal volto cereo che lo circondava.
“Capita anche a me non ti preoccupare” gli disse, chinandosi anche lei a raccogliere dei fogli planati sul pavimento fino alla fila davanti a loro.
L’uomo si alzò in piedi spolverandosi i pantaloni al ginocchio. “Sai – disse incamminandosi lentamente verso la hall del vecchio albergo- come ti dicevo a pranzo, rimango incantato davanti a quelle proiezioni nell’oscurità e dalle descrizioni dei relatori, tanto da dimenticare dove io sia..
“Succede anche a me” rispose la ragazza meditabonda “immagina per un momento di poter asciugare il mare. Che mondo scopriremmo lì sotto! Tutte quelle gole, strapiombi, montagne vere e proprie.  Ehi! Mi stai ascoltando?” disse al suo collega di studi.
“Sì, sì, scusami -rispose il giovane premendo il tasto dell’ascensore- il fatto è che sono stanchissimo e mi bruciano gli occhi, sarà per il viaggio, ma mi stavo perdendo di nuovo ascoltando quello che mi stavi descrivendo.”
“Non ti fermi un po’ con noi al bar stasera?” disse lei mentre il segnale di ascensore al piano suonava.
“No, vado nella mia stanza- rispose il giovane, strofinandosi gli occhi ed entrando nell’angusta cabina- sono distrutto e devo fare anche un paio di telefonate prima di dormire.”
“ Comunque domani sera non mancherò! Promesso.” E la salutò con una smorfia che doveva essere un sorriso e con un cenno della mano che avrebbe dovuto essere un saluto. Lei lo guardò -
sempre stato un tipo strano- Va bene! – gli rispose- allora riposati che ne hai bisogno vedo. A domani.


La stanza era una solita stanza di un solito hotel che, dopo un illustre carriera, era stato acquistato da una società ed adibito a congressi, vedendo perciò un ultimo restauro decente probabilmente prima che lui venisse al mondo..o poco dopo.
Come le navi da crociera  nella grande guerra che, dopo gli sfarzi delle rotte  atlantiche, venivano  usate come navi ospedale, per poi in seguito, cessate le ostilità, essere demolite.
Un hotel, con la scritta “Gran” davanti,  persa nel corso di quegli anni di gruppi più o meno numerosi, di società più o meno oneste, e con ospiti più o meno facoltosi.
Gettò la cartellina con i fogli di appunti, sul letto, sedette sulla sponda dello stesso e si distese – solo due minuti in modo da raddrizzare la schiena e riordinare le idee- chiuse gli occhi e immagini di fondali, sezioni di catene montuose oceaniche si accavallarono fino a mescolarsi con immagini meno  nitide, fogli per terra, un viso di donna, labbra di cocciniglia. Poi tutto il mondo intorno a lui scomparve e quel gran custode della mente e del corpo che è il sonno prese il sopravvento.

PROLOGO



“Difficile spiegare il sole a chi non l’ha mai visto”
                                                                     A.P.







Si trovava immerso sopra il fondale corallifero, non troppo profondo, in alto, si poteva vedere bene lo splendere del sole che penetrava caldo e il luccichio argenteo della superficie.
Si lasciò andare fermo sul fondale e trattenne per un po’ il respiro di modo che il rumore dell’erogatore non impedisse ai suoni del mare di arrivare ai suoi sensi, i ticchettii incessanti e quei fruscii simili a bisbigli.
La leggera corrente del reef lo cullava facendogli dimenticare tempo e spazio, magia posatasi su di lui con la leggerezza del polline.
Si girò all’improvviso, appena in tempo per vedere la fine imminente del banco di corallo, varco nell’oscurità del precipizio, regno incontrastato di pesci e misteri, nonché di correnti con il loro repentino mutare foriero di sventure, a volte, infauste.
Osservò l’infinito apparente, fino a sentire di nuovo, con consapevolezza ritrovata, il gorgogliare rumoroso delle bolle, segnale di riacquisita concentrazione.
Guardò la fune di discesa, vi si aggrappò e si immerse nel vuoto.

La cima, agganciata al pennone di poppa della nave, si perde nel blu, sembrando sempre più sottile.
Scendendo si arriva al relitto, adagiato da una cinquantina d’anni sulla ripida scarpata.
Blocchi ricchi di coralli molli scivolano intorno mentre, impreviste, tre torri di corallo si stagliano di fronte. E, all’improvviso, eccola lì, apparentemente priva di colore, nell’azzurro mistificatore del mare.
È il momento di accendere la lampada.
Come una dura crosta di pane squarciata a rivelare il candido e profumato interno, il raggio freddo dei led rivelò incrostazioni multicolore, spirografi marrone, gialli, banchi di pesce colorati apparvero all’improvviso, come se il tocco di quel gommoso pulsante avesse messo in moto una giostra ricca di colori e di forme.



Arrivò all’improvviso.
Impetuosa.
All’improvviso si sentì parte di quel carosello e non più spettatore e le immagini mutarono.
Una corrente forte e fredda lo gettò contro la poppa, lasciò cadere la torcia e si aggrappò con due mani e tutta l’anima ad una delle ringhiere incrostate del relitto, troppo abituata oramai a quel mondo incastonato e lieve di cui faceva parte ormai da tempo, per reggere la disperata presa.
Il lavoro, cominciato parecchi lustri prima dalla salsedine, ora si completò.
Scivolò sul ponte della nave vedendo la prua  avvicinarsi sempre di più, fino all’ultimo, fatale, urto.  La bombola che indossava rimase impigliata mentre lui sentiva un’ultima e prepotente forza che lo gettò in balìa di quel fiume  impetuoso verso l’oscurità

 
 
 

Uno, il Tutto. (seconda parte)

Post n°28 pubblicato il 25 Agosto 2010 da paulget
Il sovrano era inquieto.
Nel giardino del palazzo d’estate, camminava con aria assorta, fra gli alberi da frutto e i rovi macchiati di giovani more, senza coglierne la presenza.
Fosse stato nel mezzo di una strada trafficata, fra carri, cavalli e persone, non sarebbe stata diversa la nostra visione.
Cercava in qualche modo di decifrare quel qualcosa, simile a una sensazione, quasi un’impressione nata in lui al risveglio e decisa per il momento a rendere travagliata quella lunga giornata d’impegni che lo aspettava.
La riunione con la confraternita della Démologia era andata secondo i piani, eppure il fastidio, continuava nello stesso modo in cui era cominciato, parecchie ore prima, all’alba di una notte pressoché insonne.
Certo, tutto motivato.
Appena sceso dal letto però... Ora, dopo la risoluzione dell’ennesimo problema  non aveva motivo di esistere.
Tutto era andato come doveva andare e, una volta di più, l’istituzione di quel dicastero si era rivelata azzeccata. Il creare la confraternita della Démologia era stata una delle idee più brillanti avute in passato appena conquistato il potere.
Creare un’istituzione che si occupasse della composizione e costituzione sociale era una delle “ispirazioni” di cui andava maggiormente fiero.
Doveva esserci un controllo, una guida che sovrintendesse e mantenesse in equilibrio gli umori del regno.
Certo, un tempo, non avrebbe mai pensato di dover considerare che un regno fosse composto anche di persone. Ma, come l’arte del compromesso appresa nel suo passato di mercante gli insegnava, bisognava adeguarsi a volte, pur non comprendendo a fondo le cose o non accettandole proprio, di modo che i frutti arrivassero più copiosi e andassero a coprire anche quel piccolo costo che si era dovuto pagare mutando idea controvoglia.
Imperativo era che i sudditi versassero nelle casse del Palazzo, quello che per dovere naturale dovevano corrispondere.
E, logicamente, dovevano essere convinti che fosse un dovere naturale. Farlo sentire un obbligo morale ci aveva pensato l’ingegnoso meccanismo dei suoi predecessori, ma, purtroppo non avendo fatto il passo successivo, era stato perso il controllo della società, il controllo della composizione equilibrata della stessa e, chi più chi meno, era finito in disgrazia, a volte in tragedia.
Ma con la Confraternita della Démologia e la sua rete capillare di circoli in tutto il territorio, l’ordine sarebbe stato mantenuto senza intoppo per molto tempo.
Oh, sì, bisognava lavorarci sempre, con costanza e impegno, qualcosa o qualcuno, chi con uno scritto più audace, chi con una rappresentazione artistica,  rischiava di rompere quel perfetto equilibrio ma, come successo quella mattina, le cose si risolvevano nel migliore dei modi.
I giullari erano importanti, purché fossero giullari di corte. Finché la gente si divertiva e apprezzava, lui lasciava fare. Quando, però, qualcuno diventava pericoloso per il sistema e invece di far solo ridere instradasse le persone su un territorio sbagliato, magari le spingesse a sorridere e non più a ridere, allora bisognava intervenire. In modo assoluto e categorico, come lui sapeva fare benissimo. Un lavoraccio, certo ma, circondato da fedeli e capaci servitori com’era non gli risultava difficile e poi, con il lavoro duro e costante i frutti arrivano sempre, come ripeteva spesso a tutti.
Lui sapeva di cosa la gente aveva bisogno e glielo aveva sempre dato. Era il Re più lungimirante della storia recente e a volte, avrebbe voluto dire di tutta la storia.


“Sire!”
Lo ricondusse alla realtà il suo fedele servitore Alladine.
“Sire, eravamo preoccupati, non la vedevamo ritornare”.
Portava in mano una risma di fogli di canapa con le notizie arrivate come ogni mattina al castello, recapitate con devota solerzia dall'attività dei messi, i quali, ognuno nella zona assegnata, raccoglievano notizie, informazioni, piccoli stampati che i popolani amavano leggere e, proprio per questo, finanziati dalla confraternita dedicata a quell’attività.
Confraternita, appunto, presso la quale doveva recarsi in questo momento.

La confraternita della Tautologia, era molto più difficile da gestire, perché le scelte dovevano essere fatte celermente, in modo da dare la possibilità ai messi pomeridiani di portare nelle zone a loro dedicate gli scritti deliberati, in tempo per la scrittura dei fogli del giorno seguente.
Un meccanismo ben curato, da mantenere in costante attività.
Il mattino era dedicato ai fogli, nel pomeriggio osservatori specializzati, si occupavano dei libri che selezionavano con cura, analizzavano e catalogavano in sezioni apposite, una per ogni tipo di opera,
in modo da creare una perfetta statistica da passare poi ai fratelli della Démologia i quali, decidevano la mattina seguente, se fosse o no il caso di distribuire un nuovo libro o raccolta e di che tipo eventualmente dovesse essere.  Tutto questo grazie alle percentuali di classificazione fornite dai fratelli della Tautologia, considerati molto importanti proprio per questo motivo.
Il servizio, cui era preposta la Confraternita della Démologia era quello di mantenere l’equilibrio nelle opinioni e , come si può ben comprendere, questo scopo veniva ben raggiunto o , per usare un termine più appropriato, mantenuto, anche con la pubblicazione di libri. Non era importante ai fini dello scopo se fossero a favore o contro il regnante, dedicati a una o più categorie sociali, infatti, il meccanismo era basato sulla condizione di equilibrio che si doveva mantenere, per garantire una vita tranquilla nelle valli del Regno. E garantire una vita tranquilla all’imperatore insieme con tutto quello che intorno ruotava, fossero confraternite, scrivani o semplici messi che ricevevano di che vivere dalle casse del Palazzo.
Che poi le casse fossero riempite anche con il loro contributo era una questione troppo complessa su cui farli ragionare e, appunto uno dei compiti che stava alla base dell’istituto Demologico,  era quello  di non lasciar uscire i ragionamenti da un certo livello di guardia, senza bisogno di violenza o repressioni come in un passato orrendo e incivile, ma con l’equilibrio fra critiche ed elogi, fra pro e contro, fra bianco e nero, fra uno e l’altro..
Aveva creato una macchina perfetta, di prosperità e di libertà.
Sì, in effetti, dire che lui fosse il miglior Re di tutta la storia non era poi sbagliato.
Schiere di scrittori al soldo della Congregazione della Tautologia, si affannavano ogni giorno a creare qualche nuova storia, un qualche nuovo libro, sulle indicazioni fornite dal dicastero della Dèmologia e, altrettanti, erano al soldo del Palazzo fino agli angoli più remoti del regno, altri ancora, venivano reclutati  per la causa.
Uno di questi era proprio Alladine, uomo tranquillo, facente parte in passato di una schiera culturale indipendente, avvicinato ai tempi da un emissario dell’imperatore sventolante una delle bandiere che preferiva di più, quella con i colori dei benefici, del  potere, della fama e della ricchezza.
Dopo essere stato tentato a lungo, il giorno dopo cedette alle avance del Palazzo e con lavoro oculato e instancabile era arrivato a essere vero e proprio servo prediletto e factotum.
Uomo non molto prestante fisicamente, sempre affascinato dal potere e dal benessere materiale, aveva usato l’arma che gli rimaneva, la sua intelligenza.
Alladine sapeva sempre che parole usare per calmare o, a volte, spronare il suo padrone secondo le situazioni che si presentavano. E non aveva mai fallito.
La sua abilità poi, a prendere pubblicamente le difese del capo quando questi glielo ordinava, la sua maestria nel non dar possibilità oggettive ad eventuali oppositori atte a  contestare una sua opinione tacciandolo magari, di servilismo, gli avevano permesso di essere al fianco dell’imperatore con tutte le comodità di vita derivanti per se e la sua famiglia.
Il suo tono sempre calmo e pacato, che  ricordava quello dei sommi sacerdoti del tempio di Baal, si inseriva bene in un volto dalle gote cascanti e due occhi ciondolanti, il tutto dominato da una calvizie oramai dimenticata tanto era il tempo passato da quando era apparsa.
“Mi sono fermato un po’ a meditare sulla riunione di questa mattina Alladine -disse il Re rivolgendosi al servo- e non mi sono reso conto dello scorrere del tempo, ma ecco che, puntuale, arrivi tu, mio fedele amico, preciso come sempre, per  riportarmi  ai miei doveri quotidiani”.
S’incamminarono insieme lungo il sentiero che conduceva alla veranda estiva, dove ad aspettarli c’erano due cavalli con la scorta, e, mentre il Re sfogliava le canape, Alladine lo informava sulle discussioni da affrontare quel giorno al palazzo della Tautologia.
“Serpeggia una sorta di malumore, ma dovuto a niente di particolare”, disse il servitore.
A quelle parole, il Re si rabbuiò di nuovo, aggrottando la fronte, mentre, bloccandosi e alzando lo sguardo dai fogli che teneva in mano, serrò con una leggera stretta al braccio, la camminata e le parole di Alladine guardandolo.
“Che tipo di malumore Alladine, spiegati meglio.”  Il servo lo guardo stupito.
“Come vi dicevo, Signore, niente di particolare, ma un aria un po’ tesa, visi dall’aspetto preoccupato. Anche gli stessi fratelli interrogati al riguardo non sapevano dar motivo di ciò, descrivendolo come una specie di sensazione, avuta già la mattina appena destati dai servitori.
Il Re, annuendo lentamente, riprese il cammino ripensando alla sensazione che aveva avuto anche lui durante la mattinata e che tanto lo aveva tormentato fra gli alberi del giardino.
La voce della moglie lo riportò al reale. “Marito mio. Stavamo in pena per voi”
La donna, gran dama che gli aveva dato molte soddisfazioni e figli, affrettò il passo verso di lui abbassando leggermente la testa per baciarlo sulla fronte.


Ora, per chiarezza della nostra storia, bisogna dare qualche breve spiegazione.
L’imperatore era di parecchi anni più vecchio della moglie, la stessa, non era neanche il suo primo matrimonio.
Infatti, in un periodo lontano, ai tempi del regno del suo predecessore e amico, mentre, giovane mercante,vagava per le contee, conobbe in una serata di relax fra amici una cameriera che gli sembrò subito un angelo. Una bellezza fresca, giovane e angelica, per niente volgare, insomma, per farla breve s’invaghì di lei.
La situazione nei periodi successivi non fu facile. Anche se corrisposto dalla ragazza, infatti, faceva il possibile per essere presente, ma i sentimenti all’epoca non avevano guardato in faccia nessuno, neanche lui e la moglie che già aveva nella contea vicino a quella della ragazza.
Grazie all’interessamento del sovrano dell’epoca, con cui faceva affari e che avrebbe poi abdicato in suo favore, s’incontrò con un personaggio introdotto nel Palazzo che gli procurò un angolo di pace in città dove consumare la loro passione.
Dopo un po’ di tempo passato con incontri quasi clandestini, il tutto non bastò più e, con delle decisioni ben ponderate decise di abbandonare la moglie per vivere in tranquillità nelle stanze del castello che, nel frattempo, fra un affare e l’altro aveva ottenuto dal Re.
Passarono diversi anni in cui il potere del Re e, di conseguenza il suo crescevano senza sosta.
Decisero allora, dopo la caduta del sovrano che in preda al caos aveva abdicato in suo favore, di sposarsi. Furono benedetti da Baal,come amava ripetere lui, che gli portò ben quattro figli, mentre lei, schiva e umile, non appariva mai in pubblico, ma dava ogni giorno forza a suo marito durante le dure battaglie contro i barbari dell’epoca, pronti ad approfittare del momento di instabilità dopo la fuga del sovrano precedente. Per il resto, dedicava tutta se stessa alla cura dei figli e a varie attività fra le mura del castello, uscendo raramente in pubblico e, un po’ rimpiangendo invero, i tempi felici della clandestinità.

E così che si è giunti a questo punto, con questa situazione alle spalle, ma con un futuro florido davanti, felice, nonostante tutto, a fianco del Re, sempre molto impegnato, ma anche presente nei suoi confronti.
Come lo era lei, premurosa e presente, anche in quel momento in cui gli portava la mantellina da rappresentanza e lo salutava mentre partiva per i suoi impegni quotidiani. Sì, dandogli pure un bacio. Sempre presente e premurosa.

Il Re, al solito, fece uno sforzo per salire a cavallo.
Non per la sua prestanza fisica, certo non era certo un gigante, anzi, era sotto la media in altezza, tanto da essere sicuramente più basso del più basso dei suoi servitori  senza il brillante stratagemma usato da tempo, in forma di due rialzi di cuoio duro negli stivali.
La moglie, che lo vedeva nell’intimità delle stanze coniugali, amava dirgli che “il vino più buono sta nella botte più piccola”.
E lui, con questa sicurezza dentro, e qualche sotterfugio, aveva passato gli ultimi anni, in maniera brillante ma, quando si trattava di salire a cavallo…
Era sorto molto tempo prima il problema, quando il suo primo maestro di equitazione, già dalla prima lezione gli disse: “A cavallo si sale sempre dalla parte della sua spalla sinistra, prendete le redini e passatele sul collo dell’animale e tenetele ferme con la mano sinistra (ancora) sul collo per tenere fermo il cavallo mentre salite”.
E ancora poi:

 “ Si smonta dalla parte sinistra, ricordandovi di tenere le redini sulla parte sinistra...”

A lui, mai era andata a genio questa cosa. Si ostinava a voler montare dalla parte destra, aveva addirittura voluto un altro istruttore per sentirsi dire di nuovo le stesse cose.
Tempo dopo aveva pensato pure di promulgare un editto a riguardo, sempre sconsigliato dai suoi collaboratori più stretti.
Con il suo sgabello, dalla parte della spalla sinistra del cavallo, salì in groppa e si avviò con scorta e servitore particolare verso il palazzo della Tautologia.

martedì 17 agosto 2010

Il Re è morto.Viva il Re!

Post n°20 pubblicato il 17 Agosto 2010 da paulget
Foto di paulget
Essenzialmente la televisione è più vicina alla vita reale di qualsiasi altro libro. La pazzia della televisione è la pazzia della vita. (Camille Paglia)

La normalità è il consentito.  (Paulo Coelho)





“Come diavolo è potuto succedere! Voglio da voi una spiegazione, e non una qualsiasi,
ma una spiegazione che mi possa far capire come diamine possa essere successa una cosa del genere!”

Il Re, pezzo d’uomo, sulla strada dell’autunno ormai  come i suoi capelli lasciavano intravedere, camminava avanti e indietro per l’immenso salone che faceva da studio personale, fermandosi a volte per rileggere di nuovo l’ultimo comunicato recatogli da uno dei suoi messi.
“Fino a ieri tutti, tutti voi, dicevate che avreste avuto sempre e in ogni caso la situazione in pugno, che il popolo sarebbe stato con me sempre, che mi avrebbero amato sempre e avrebbero accettato sempre di buon grado ogni cosa gli avessi proposto.”
Uno dei due servitori si sporse verso di lui per accennare qualcosa ma commise l’errore di avvicinarsi troppo.
Una mano forte e villosa arrivò sul suo viso come un raggio di sole improvviso, la mattina passata una collina, ti arriva agli occhi facendoteli chiudere. E così fu, li chiuse d’istinto, ma la forza che alimentava quel gesto non era paragonabile alla luce accecante del sole e lo scagliò, esile e minuto com’era, contro la vetrata che dava sul balcone, lo stesso dove fino a pochi giorni prima si affacciava con il suo padrone per i bagni di folla ormai usuali in tutti quegli anni.
Il fisico emaciato fu la sua salvezza, infatti, nonostante il forte colpo, il vetro tremò con fare sinistro lasciandolo a terra con gli occhi stretti e le mani a coprirsi la testa e ad aspettare la pioggia di schegge che lo avrebbe sicuramente investito.
 Il vibrare del vetro andò scemando, ed il servo alzando leggermente la testa da sotto le braccia, vide che aveva resistito. Un sospiro venne dal profondo, spezzato a metà da un calcio nello stomaco che lo fece rimanere in apnea come avessero consumato tutta l’aria intorno, come se fosse all'interno di una bolla senz'aria e lui, in mezzo, annaspante con la bocca aperta come un pesce fuori dall’acqua appena pescato.
Un dito tozzo, grosso, e minaccioso si stagliò contro di lui..
“E tu! Incapace che non sei altro – riprese il monarca- mi dici che sarebbe tutta colpa di un pozzo! Colpa dell’acqua di uno stramaledetto pozzo?!”
L’altro servitore fino ad ora in disparte, con la voce tremante, disse qualcosa come .” ascolti mio signore..” e il Re si girò di scatto fulminandolo cogli occhi  spiritati, mentre lui continuava con un coraggio figlio più della disperazione che di qualche virtù nascosta, “ se ci sediamo con calma posso spiegarle tutto in poche parole e potremmo così trovare una soluzione, a tal proposito mi son permesso di chiamare a palazzo il suo fedele amico, il mercante che già tante gioie ha diviso con voi.”

Quelle parole sembravano aver sortito l’effetto voluto e il Re, alzando la testa verso il panorama aldilà della vetrata ebbe subito un espressione diversa, mentre il secondo servo tenendosi a debita distanza aiutava il mingherlino a terra a rialzarsi il sovrano disse :- “ Va bene! E sia! Mandatelo a chiamare e parliamone con calma.”

Il mercante era un uomo arrivato a corte parecchi anni prima e tra mille proposte e affari buoni era entrato nelle grazie del regnante diventando anche piuttosto intimo tanto da organizzare pure le sue nozze, nel frattempo l’uomo usava il potere e le conoscenze del Re per accrescere i suoi averi.
Uomo sempre sorridente e affabile, severo quando si trattava di discutere seriamente se un terreno doveva essere usato a pascolo o usato per costruire delle nuove case, una serietà che incuteva timore ai tutti i consiglieri del Re e faceva a pugni con la sua non proprio prestante fisicità. Alto poco più di un metro e sessanta, faceva anche fatica a salire a cavallo, e le malelingue di palazzo dicevano che avesse dei rialzi dentro li stivali per sembrare più prestante.
Con il tempo però, aveva conquistato un po’ tutto il territorio intorno alle mura del castello e non c’erano botteghe, osterie, fabbri, o contadini che non fossero in mano sua. Tutto naturalmente con l’approvazione del Re che lo aveva aiutato non poco e gli aveva concesso molti dei suoi territori.
Per questo motivo il monarca si rasserenò al sentir il nome del suo grande amico.
Infatti, anche lui avrebbe avuto interesse ad evitare una rivolta popolare.


Il mercante entrò nel salone senza essere nemmeno annunciato, con un sorriso da gaudente stampato in faccia, e quando il Re lo vide, gli andò incontro abbracciandolo, facendo sembrare il piccolo uomo un bambino fra le sue vecchie ma ancora robuste spalle.
“Ascolta amico mio- esordì l’uomo- ora ti spiego come sono andate le cose e vedrai che una soluzione la troviamo. Dopo tante battaglie passate insieme vedrai che vinceremo anche questa.”
“Mio caro e fedele amico – disse il Re guardandolo negli occhi- qui il problema è grosso, la gente è impazzita e rischio non solo di perdere il regno e per ironia della sorte a questo punto mi andrebbe anche bene di perderlo, ma anche tutti i tesori che ho accumulato in questi lunghi anni di fatiche. Non pretenderai che mi faccia spogliare di tutto.”.
Il piccolo uomo guardò i servitori e disse:- “ Gli avete spiegato come stanno le cose? Cos’è successo davvero?” I due uomini si guardarono balbettando, a questo punto il re intervenne “No! Non hanno saputo far altro che blaterare dell’acqua, del pozzo del paese e altre scemenze simili.”.
“Infatti, è cosi “, lo interruppe il mercante, lascia che ti spieghi.
E così dicendo si sedette sul divano facendo cenno al Re di seguirlo. Un po’ sorpreso da un comportamento simile ma ormai disperato, il Re lo seguì e sedette accanto a lui.
“Vedi”, disse il mercante girandosi verso il Re, “ un uomo malvagio al soldo di altri uomini e streghe, per spodestarti e privarti del tuo regno, ha preparato una pozione magica che ha il potere di rendere pazzi gli uomini, e l’ha versata nottetempo nel pozzo del paese, dove tutti prendono l’acqua a parte te che hai un tuo pozzo personale, e tutto il popolo è impazzito, non capisce più quello che dici e che fino a ieri andava bene per loro. Anche tutto quello che hai fatto è diventato all’improvviso opera di un pazzo”.
Il Re sgranò gli occhi “ Ma se mi stai dicendo che sono loro a esser diventati pazzi, come sarebbe che sono io il pazzo! Io sarò il normale semmai!”
“Certo, caro amico –disse il mercante- ma loro sono tutti  pazzi e sono la maggioranza, e quindi se ne deduce che, essendo solo tu diverso, sei tu il pazzo per loro.”

“Consentimi..–il mercante si alzò dal divano invitando il Re a seguirlo- io una soluzione ce l’avrei per risolvere il tutto e darti la possibilità di uscirne bene”. Così dicendo lo prese sottobraccio e si allontanò dai consiglieri camminando lentamente vicino al Re, arrivati lontano da orecchie indiscrete davanti alla vetrata risparmiata dalla furia regale poco prima, disse:- "Certo che questa non è una bella situazione. In nome della nostra vecchia amicizia però avrei in mente un modo per dare a te la possibilità di mantenere le tue ricchezze e a me di aumentarle. Potremmo sfruttare la situazione che si è creata e girarla a nostro favore.”
“Dimmi come, ti ascolto!” esclamò il re con un aria fra il calmo e il supplichevole, l’aria di uno che pende oramai dalle labbra di un altro uomo piuttosto di finire ‘appeso’ in mezzo ad una piazza tra la folla inferocita.
“ Vedi.. tu dovresti abdicare". Così la gente sarebbe soddisfatta, e mettere al tuo posto una persona di cui si fidino e, che nello stesso momento ti permetterebbe di trovare riparo nel regno oltre il mare dal tuo amico Conte che sicuramente ti accoglierà a braccia aperte.
Il Re s'irrigidì, nella luce ambrata del tramonto che illuminava il suo volto provato ebbe un sussulto, come se i suoi sensori da esperto despota fossero entrati tutti in allarme a quelle parole.
Si girò verso il mercante che lo guardò con aria sorniona, l’aria di uno che ti dice con un sorriso:  “Sì..hai capito bene..”
“TU?” esclamò il Re e abbassando subito la voce aggiunse:- “Come farai tu a tenere a bada una folla che tu stesso hai definito pazza pochi minuti fa! ”
“Non ti preoccupare -rispose l’uomo- è il minimo per una persona come te che mi ha dato tanto, ho già un piano in mente. Tu, però, devi partire prima possibile.
Il Re restò in silenzio per un attimo che sembrò eterno, poi si girò verso il mercante e lo abbracciò.
“Grazie amico mio, sapevo che non mi avresti mai abbandonato, ma tu ora che farai, ora che resti solo contro un popolo che potrebbe farti perdere tutto quello che hai conquistato in questi anni”.
Il piccolo uomo lo guardò negli occhi e disse :-“Fidati..ci penso io!”
E così, con quest’ultimo abbraccio si suggellò il passaggio di consegne e il Re, affranto ma sollevato, si avviò verso lo scrittoio con passo lento che lo fece sembrare ancora più vecchio.
I consiglieri si guardarono e poi guardarono il mercante, da lontano lui fece un sorriso ed un cenno di intesa. Un sospiro silenzioso salì dai loro cuori.


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“Signori, sono pronto!”
Il nuovo Re stava davanti ai pesanti intarsi di legno e ferro del portale che si apriva sulla piazza del paese, circondato dalle sue guardie, bardato di tutto punto, ma non troppo appariscente, si era preparato con cura.
Negli ultimi giorni si era fatto preparare tutta una serie di messaggi distribuiti ai suoi nuovi messi che li avevano letti in tutti gli angoli delle strade e, ormai, il popolo era curioso di vedere e sentire cosa avesse da dire questo mercante che aveva spodestato, secondo la loro opinione dovuta all’intruglio nel pozzo, un Re folle e ladro.
Ora era il momento, si assicurò che la piazza fosse piena e diede il segnale.
Le porte si aprirono.

Un grande sorriso illuminò il volto dell’ex mercante, mentre la folla si apriva come acque bibliche al suo passaggio per richiudersi subito alle sue spalle, il che preoccupò non poco le guardie che stavano intorno al loro sovrano.
 Lui era sicuro. Sicuro nel passo, nel sorriso, nello sguardo, ma si guardava bene dal parlare, essendo considerato ancora, dalla gente sotto incantesimo, un folle, anche se, a detta dei messaggeri che inviava in incognito fra la gente, serpeggiava un velo di ottimismo fra il popolo.

Arrivò in cima alla piazza, davanti al pozzo. Ordinò ai suoi servi di attingervi un po’ d’acqua.
La gente, incuriosita, cominciava a mormorare.
Appena il secchio fu pieno, lui , da una delle tasche, prese un bicchiere di rame preso nelle cucine, lo immerse in quell’acqua fresca e  bevve tutto d’un fiato.
Per un attimo si guardò intorno, poi all’improvviso, senza nessun preavviso una fiammata gli salì da dentro, un calore che dalle gambe arrivava sempre più su, fino al petto, ancora più su fino alla testa e, come se non potesse uscire da nessuna parte, gli scaldò anche gli occhi. Poi cessò.
Si girò verso la piazza ormai ammutolita.
E parlò..
La gente disse subito: "Questo sì che si capisce quando parla."

E regnò in tranquillità per molti anni ancora, salvando le sue proprietà insieme a quelle dell’amico.

Sassi

Post n°18 pubblicato il 14 Agosto 2010 da paulget
Foto di paulget
“Le pietre respirano”.

Mi tornano alla mente queste parole mentre cammino lungo la strada delimitata da muri a secco.
Se uno mi chiedesse ora, quanti anni fa ho sentito questa affermazione, mi troverebbe impreparato.
Non saprei trovare un periodo esatto nella memoria.
O forse è solo un' idea.
Idea. “l’essenza, la forma archetipica delle cose di là dai loro aspetti particolari e accidentali, conoscibile attraverso la pura attività intellettiva” scriveva Platone.
 Le idee possono essere sostanza, contenuto, fondamento, nocciolo, nucleo, filo conduttore, o semplicemente sensazioni che nascono dal di dentro, dal fondo di noi stessi, da quella parte di noi stessi che esisteva molto prima che noi potessimo dire “sono consapevole di pensare”.
L’inconscio, che ha a disposizione molti più dati della piccola e giovane coscienza, riesce forse ad avere una visione più globale e integrata delle cose?

Le pietre sembrano paragoni forse rozzi, di quel tesoro che abbiamo in fondo al nostro pozzo scuro e che accompagna la nostra coscienza nei riti quotidiani, ma che esisteva già prima di noi.
Prima di me.  Osservo una pietra e penso a quanto ha visto prima di me.

“ Ehi parlo con te! Mi senti Guido?”
Il mio compagno di avventure mi agita la mano davanti al viso sorridendo e scoprendo quel suo dente spaccato che rifiuta sistematicamente di riparare.
 “Non è per i soldi Guido - mi disse un giorno- è perché la gente mi presta più attenzione ora quando parlo o sorrido". Quanto mi ha fatto pensare quella frase.

“Scusa, stavo pensando a una cosa..”
“Eh..al solito! Ascolta, si va a trovare tuo padre oppure no. Io mi son preparato lo zaino, non è che  cambi idea all’ultimo momento.”
E dicendolo si girò con il suo immancabile filo d’erba in bocca squadrandomi come volesse entrarmi negli occhi.
“Vittorio, no che non cambio idea, ma non sono sicuro che la moto ci possa portare fino a laggiù senza darci problemi”
Si fermò. Ora il suo sguardo era un mezzo sorriso, di quelli che certe persone hanno stampato in faccia quando un campanello d’allarme immaginario suona dentro di loro, quasi che le tue parole avessero toccato dei fili collegati a un sonaglio dentro la loro testa.

“Guido – disse guardandomi negli occhi – quanto tempo è che ci conosciamo tu ed io.”
“Non cominciare Vittorio il problema è che..”
“Il problema? Te lo dico io qual è il tuo cavolo di problema Guido!”
“Quando mai ti sei fatto problemi di questo tipo?" Quando mai sei stato indeciso se partire o no, che fosse andare in Inghilterra, oppure in Svizzera?”
“No mio caro tu non me la racconti giusta!”

Beh, ci conoscevamo da un bel po’ davvero. Da quando? Da sempre forse.
Il ricordo della mia prima sigaretta lo vede vicino  mentre m’insegna come far andare via l’odore sputando di continuo la saliva con una gomma in bocca. Mentre faccio scorrere il pensiero al mio primo esame importante, quello delle scuole elementari, giro gli occhi e lo vedo lì, due banchi più in là.
E quanti gomiti abbiamo consumato sui banconi di bar e osterie, più o meno degne di questo nome.
Forse, come l’inconscio, anche lui esisteva prima che venissi al mondo io, come le pietre di quella strada di campagna che innumerevoli volte abbiamo percorso, prima da bimbi con le biciclette, poi da adolescenti con il mondo ancora da scartare, ora da uomini a parlar di puttanate e ricordare il passato a volte, che non era mai, dico mai, come lo avremmo voluto.
Perché quei viaggi, quelle scorribande, quelle che a noi sembravano avventure di vita vissuta ci avevano lasciato dentro sempre una malinconia o un rimpianto, un “se” oppure un “ma” e poco serviva dire, come usava pontificare lui a volte, quasi fosse un concetto Aristotelico:  "Con i “se” o i “ma” non si gioca a calcio e neanche si vive caro mio."

A quanto corrispondevano tutti quegli anni, rapportati al respiro di quelle pietre che sempre ho trovato lì al mio ritorno.
Questo è quello che avevo pensato in quel momento e non se la moto ci potesse lasciare o no in strada.
Ho sentito la pochezza di questa mia vita, la velocità con la quale corre via, l'infinitesima parte in rapporto a quei sassi intorno a me.
E mi son chiesto se era ancora tempo di far finta di niente e tenere separati ancora la mia piccola e fallace coscienza dalla pietra, dura, vecchia e saggia che è il mio inconscio.
Posso sentire respirare le rocce, mi chiedevo.  Sbagliavo la domanda.
Posso sentir respirare il mio inconscio, era la domanda giusta.
E, se il passato non si può cambiare, potrei cambiare il futuro?
Altro quesito errato.
Posso cambiare il mio passato, era quello giusto.
E in un attimo in quello che per me è stato un secondo, ma chissà per Vittorio quanto, ho capito questo mentre mi guardava con quel piglio indagatore.
Devo vivere il presente come vorrei fosse il mio passato nel futuro. 
E ora dovrei a spiegare a Vittorio cosa?  Questo?
Un “qualcuno” un “qualcosa” da dentro mi disse: è sempre stato con te, se lo sarà ancora non dipende da te ma dalla sua coscienza. Non puoi fingere di non esser cambiato.

Allora, staccai i miei occhi dai suoi e voltai lo sguardo verso il mare. Appoggiai con una pacca la mano su una pietra calda per il sole, che stava lì,  in attesa del gatto di turno che nella fresca serata sarebbe andato a godersi quel giaciglio così tiepido.
E, con calma, gli dissi:

“Lo sai che le pietre respirano?”

Di mocassini, di persone e di ombre.

Post n°17 pubblicato il 09 Agosto 2010 da paulget
Foto di paulget
Il sognatore su di una grossa moto vede sul marciapiede un collega che lui sa essere il migliore nel loro settore in città. Si accorge in quel momento in cui è roso dall'invidia,d’avere un pene lunghissimo, e sottilissimo ravvolto a fune, che gli ostacola la guida. L’ombra come il solito coprì la scena.
La sognatrice entra in un palazzo dai grandi saloni.
Nascosta, assiste al turpe lavoro che là dentro, per opera di una megera, si va compiendo: giovani donne vengono pietrificate e quella di turno, come tutte le altre, lascia fare limitandosi a chiedere che non le venga fatto sentir dolore. Un ombra oscurò la scena
 Il sognatore scorrazza spensierato e frivolo nel deserto a bordo di un carretto trainato da un cane. Si ritrova a casa dei suoi genitori, dove un sacerdote dice che nel deserto è giusto andarci solo per trovare Dio.
L’ombra arriva puntuale a chiudere il sipario avvolgendo i suoi genitori insieme al prete.


L’uomo si era alzato presto quella mattina.
Con gesti automatici e consueti aveva preparato il poco caffè “Touba” che gli era rimasto.
Donne pazienti, colorate e sorridenti avevano tostato quei chicchi miscelati con il djar e altrettanto pazientemente, con mano sapiente da una vita di automatismi insegnati e più o meno imposti, avevano separato il seme di djar piccante prima della macinatura che avrebbe reso pronto per l’uso quel caffè tanto strano quanto profumato.
Aveva acceso la radio con un gesto, che per tanto abituale e inconsapevole,  poteva essere compiuto anche dal gatto di casa. A volte il gatto lo faceva pure.
Il tempo per le abluzioni quotidiane aveva portato via gli ultimi cinque minuti prima della recita automatica del solito rito, dove “bismillah al-rahmani rahim e amin , scivolavano nell’aria come il caffè preparato o l’accensione della radio.
Quando uscì di casa, intento a pensare al discorso che avrebbe dovuto fare al suo collaboratore che il giorno prima aveva incasinato  un affare già chiuso e che lo aveva tenuto sveglio quella notte in cerca di soluzioni più o meno intelligenti e rapide, un odore di fiori e di erba bagnata lo avvolse, come una forza che vuole entrare, penetrare, o per lo meno farsi sentire parandosi davanti gridando “ehi!!! Mi vedi? Sono qui! Davanti a te! Dietro a te!

L’uomo ebbe un brivido che lo infastidì non poco facendogli  pensare quanto fosse assurdo che ci sia un fresco del genere ancora la mattina presto per poi passare il resto della giornata a ripararsi da un sole che non risparmiava niente e nessuno.
Tornò ai suoi pensieri e si avvio con passo svelto fra gli alberi mossi da una piccola brezza e i fili d’erba bagnati da una magia della notte che aveva posato il suo nutrimento sulle foglie e gli steli assetati.
Un camion che passava lo spinse ancora di più sul limite della carreggiata finendo con i suoi sandali scamosciati sull’erba bagnata. Una sgradevole sensazione lo avvolse di nuovo. Anche la rugiada ci mancava.
Ora, mentre pensava agitato se si sarebbero asciugate in tempo le macchie di bagnato sulle sue Stonefly nuove prima del suo arrivo alla riunione, ricordava le parole che la sera prima al telefono il  presidente della società in persona, un attimo prima di chiudere la comunicazione, gli aveva lasciato lì, come un discorso in sospeso, come un "ma" come un "se"..
“Sono sicuro che lei, con la sua presenza, la sua persona sempre precisa è curata, la considerazione che per questi e altri motivi gode nell’ambiente, saprà sicuramente prendere la decisione migliore per la nostra azienda.”
Esatto! E lui sarebbe dovuto arrivare con le scarpe macchiate da quell'erba bagnata. E poi cosa ci voleva a coprire con l’asfalto anche i bordi della strada.

Già prima che il progetto fosse messo in pratica, con il geologo impegnato a correre fra un punto e l’altro in vari appezzamenti di terreno, alla ricerca di una continuazione della scarica elettrica, si sapeva benissimo che un giorno si sarebbe alzato dalla sua sedia  portatile per dire:  qui! Questo è il posto adatto, qui si può scavare. Indifferentemente da dove si sarebbe trovata l'acqua, avrebbero dato il via ai lavori dell’ennesimo Château d'Eau.
Il fatto che quello fosse un terreno coltivato e che sarebbe stata completamente snaturata l’area era un problema secondario.
Il terreno, come quasi tutti, era di proprietà dello Stato e lo stato li affittava, con contratti anche di novantanove anni certo, che davano la sensazione a chi lo lavorava e ci viveva che fosse suo quasi di diritto dopo la seconda generazione.
 Lo Stato decideva. Lo Stato poteva in certi casi espropriarlo, se poi la società che doveva occuparsi dei lavori era una grande riserva di voti per il presidente in carica il gioco era fatto.
E quello scemo di ragazzo senza palle si era fatto metter i piedi in testa da una massa di contadini e allevatori proponendo dei siti alternativi e nuovi sondaggi!
Era bastata una telefonata.
Era già risolta la questione. Mancava solo il dover recuperare affidabilità agli occhi degli altri soci che partecipavano all’impresa.
L’uomo  si avviò, con questa sua bella convinzione e sicurezza alla riunione che lo aspettava, guardando di tanto in tanto i suoi bei mocassini inglesi in attesa che il caldo in arrivo facesse il suo lavoro e li riportasse alla perfezione originaria.
E con questa “speranza” si avviò verso la sede aldilà della strada, mentre il sogno assurdo fatto nell’unica ora in cui era riuscito a prender sonno, tornò nella sua mente strappandogli un sorriso per quanto irrazionale e ridicolo fosse.


La donna al volante era nervosa.
Lo sapeva! Ne era sicura!  Aveva ritardato di quei dieci minuti maledetti l’uscita da casa.
E ora il serpente di macchine che portava al centro di quella caotica metropoli la aveva avvolta fra le sue spire.
E non poteva fare altro che abbandonarsi alla corrente di quel fiume fumoso che sarebbe sfociato nella centrale piazza dell’Indipendenza.
Un ragazzino che avrà avuto dieci anni camminava con in testa un sacco di erba e di semi.
Un camion stracolmo di arachidi cercava in tutti i modi di farsi largo fra le macchine per passare nell’altra fila dove la corrente sembrava più forte.
Il semaforo, per l’ennesima volta passò da rosso a verde e lei per l’ennesima volta sentì montare la rabbia dentro. Possibile che io debba stare qui, ferma, a guardare un incrocio che non esiste più?
L’ennesimo camion diretto alla spremitura delle arachidi passò di corsia e schizzo aldilà di quel crocevia oramai senza regole. In un attimo gli fu dietro accelerando per non perdere l’“ariete” che avrebbe segnato il percorso anche a lei.
Fu un attimo. L’attimo seguente  allo scarto di lato del rimorchio davanti a lei e se lo trovò davanti.

Il ricordo, che gli sarebbe rimasto nella mente per anni, la straordinaria lucidità con cui, in quell’istante che parve eterno notò, assurdo quasi come un sogno, i mocassini color ocra ai piedi dell’uomo, mentre volava sul cofano della sua macchina per sbattere poi sul parabrezza immediatamente trasformato in una tela degna del miglior ragno.




L'uomo con i suoi mocassini oramai asciutti , decise in quel momento di attraversare quel caos di macchine e camion che gli si parava davanti.
I semafori in quei casi sono veramente “creature ornamentali”. Segnano un confine che non c’è.
E, ridicoli come possono essere solo in quell’angolo di terra che si affacciava sull’Atlantico, continuavano a cambiar colori neanche fossero alberi di Natale che aveva visto tante volte nei suoi viaggi in Europa.
Non la vide arrivare,  solo un ombra poi una forza sovrumana lo sollevò da terra e poi il colpo.
Quel colpo che non avrebbe mai dimenticato. Il mondo si oscurò, per poi esplodere in mille galassie luminose. Poi fu il buio.


Il sognatore sta scalpellando il legno di un pavimento per giungere alle venature più pure. E’ molto stanco ma un vecchio al suo fianco lo induce a continuare perché-egli dice- il Profeta ha svolto più lavoro di te. Il sognatore insiste e intanto il Vecchio muore. Il sognatore piange a dirotto e il vecchio si siede dicendogli che è contento di averlo visto piangere per lui. Dopodiché torna a morire.

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Aprì gli occhi.
Ancora scosso dall’ultimo sogno, li chiuse di nuovo come a voler tenere ferme ancora per un po’ quelle immagini. Qualcosa di strano. Qualcosa di diverso aveva attirato la sua attenzione.  L’’ultima parte del sogno era uguale ma nello stesso tempo diversa dalle altre.
Qualcosa gli sfuggiva. E strinse ancora un po’ le palpebre neanche la forza con cui avrebbe stretto fosse direttamente proporzionale al ricordo, alla possibile reminescenza che stava cercando.

Ma fu subito un tripudio di odori, di suoni.
Stava sognando di nuovo?
Aprì gli occhi e i suoni rimasero. Gli odori divennero ricordi e i ricordi lacrime.
Di gioia. Di commozione vera. Ora ricordava cosa fosse quella sensazione diversa nell’ultimo sogno. Mancava l’ombra, quella che chiudeva sempre il sipario sulle sue precedenti visioni inconsce.

Il gatto gli saltò addosso. E stirandosi come solo i gatti sanno fare emise un miagolio che non aveva mai sentito prima.
Si alzò dirigendosi verso la cucina. Sedette con la testa fra le mani, e con gesto ormai abituale, cercò la cicatrice lasciata dall’operazione con cui un chirurgo sveglio e intraprendente, mesi prima, lo strappò dal buio in cui era precipitato.
Molti mesi erano passati. E il primo risveglio a casa dopo tanti all’ospedale fu quanto di più diverso poteva aspettarsi.
Il gatto, accucciato vicino alla ciotola del cibo emise un miagolio. La voce in lontananza del muezzin arrivava ovattata dentro il "pacco" di cinguettii, di automobili che sfrecciavano veloci, di discorsi fatti ad alta voce fuori dalla bottega di calzolaio di fronte a casa sua.
Diede da mangiare alla bestiola, restando lì a fissarla  mentre gustava il suo cibo intervallato da strusciamenti fatti sulla sua gamba.
Prese il caffè Touba dal vaso. E in un attimo tutti i profumi del suo passato lo accecarono come uno schiocco di sole in una piantagione di arachidi nella periferia di Dakar.
Donne pazienti, colorate e sorridenti avevano tostato quei chicchi miscelati con il djar e altrettanto pazientemente, con mano sapiente da una vita di automatismi insegnati e in parte imposti, avevano separato il seme di djar piccante prima della macinatura che avrebbe reso pronto per l’uso quel caffè tanto strano quanto profumato.
Ora, mentre lo sorseggiava piano, sentiva inconfondibile il retro gusto piccante dato da quella spezia etiope miscelata al caffè.
Fu il caffè migliore della sua vita.
Le abluzioni durarono un’eternità.
E i “bismillah al-rahmani rahim e amin quella mattina erano muti. Non provenivano più dalla sua bocca. ma da dentro di sé.
Sentiva il suo corpo, la sua persona , distante, quasi la guardasse dal di fuori.
E mentre, in meditazione terminava la preghiera, capì.

Uscì nell’aria ancora dolcemente fresca del mattino che dava quel brivido stupendo, fra gli alberi mossi da una piccola brezza e i fili d’erba bagnati da una magia della notte che aveva posato il suo nutrimento sulle foglie e gli steli assetati. Quelle foglie ricche di rugiada dissetate da una natura, da sempre madre giusta e premurosa.
Si tolse i mocassini oramai inzuppati, e camminò a piedi scalzi fra l’erba umida, salutando con una gioia mai provata prima i bottegai che riaprivano le loro attività.
Arrivò al bivio che dava sulla statale che lo avrebbe portato verso l’ufficio dopo tanti mesi di assenza.
Ma vide l’altra strada. Quella che non aveva mai notato. Quella opposta alla direzione che era solito prendere in quel crocevia.
Quella che portava alla Langue du Barbare, quella lingua di terra che separava il fiume dall’oceano. Il luogo della sua infanzia e giovinezza, popolato di donne che  tostavano il caffè, e di uomini che si preparavano alla pesca.

Si sedette su di una pietra fra l’erba ai bordi della strada con le scarpe in mano.
Gli salì alla mente il ricordo dell’ombra  scomparsa dai suoi sogni. La rivide con gli occhi di allora ma la consapevolezza di oggi. Un po’ ridicola e un po’ minacciosa.
E lui la aveva incontrata e  accettata, e ne aveva scoperto la parte positiva.
E quella mattina, all’ospedale un po’ di giorni dopo il risveglio dal coma, lo specchio gli aveva restituito un’immagine diversa da quella cui era abituato. Gli aveva restituito ciò che lui non amava vedere. E lui quel giorno decise di guardare quell’immagine.
E la maschera, l’identità di copertura, in cui si è ciò che gli altri vogliono che noi si sia o quello che noi amiamo pensare di essere, quel giorno non prese forma.


Si mise i mocassini impolverati e a braccetto della sua nuova vita si avviò verso la costa. Di tempo ne aveva ora.
La mano nella tasca strinse forte la lettera di dimissioni che conteneva. La avrebbe consegnata più tardi.


Storie di STRA-ordinaria Follia

Post n°15 pubblicato il 04 Agosto 2010 da paulget
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La follia, mio signore, come il sole se ne va passeggiando per il mondo, e non c'è luogo dove non risplenda. (William Shakespeare)



“Tu dici? Non è forse che viviamo anche ora in un epoca oscura? “ chiese l’uomo al suo compagno di viaggio.
“Quello che io credo o non credo non ha nessuna importanza “rispose l’uomo “ l’importante per noi ora è salvare il salvabile, a cominciare dal nostro progetto. Il punto essenziale, quello da cui dipende la riuscita del nostro lavoro futuro è quello di dare a loro quello che vogliono, dare a loro ciò che loro possano accettare e senza che abbiano motivo di credere, solo sulla base di una possibilità,  in quello che noi vogliamo creare. “

L’uomo si massaggiò la barba ispida ma ben curata, cambiò posizione sporgendosi in avanti per avvicinare di più il suo viso a quello dell’amico e collega e, quasi in un sussurro, disse : “ A meno che tu non voglia passare per un folle, a meno che tu non voglia esser tacciato come tale e portare avanti i tuoi “esperimenti” da solo senza il becco di un quattrino. “

L’altro, seduto di fronte, si tolse gli occhiali con cui stava scorrendo alcune pagine di un  manoscritto e, con gli occhi fissi in quelli dell’uomo disse in tono neutro “ In culo loro e i loro soldi..”

“ Ma..cosa stai dicendo- gli rispose l’uomo -se...”  ma lui non sentì più nulla, si alzò nello stesso momento in cui il treno si fermava, rischiando di finire addosso all’amico e tutto cambiò;  il ruscello crebbe e diventò un torrente.

“ Non avremmo forse un mondo ancora fermo al medioevo senza quelli che tu chiami folli!?
Non sarà che non siamo mai usciti e mai usciremo da quell’oscurantismo che crediamo far parte di epoche  passate, remote, di cui sorridiamo e  a volte ci stupiscono?
Non è che oggi l’oscurantismo esiste ancora, e noi non ce ne rendiamo conto? “ e il torrente si ingrossò ancora…
“ Forse  nemmeno all’epoca se ne rendevano conto?  Come un pesce che nuota nel mare e, se gli parlano del mare, non sa cosa sia perché ne è avvolto, come l’aria che respiriamo di cui noi siamo avvolti, non ce ne rendiamo conto perché ne siamo immersi.?
Immersi  oggi come ieri in un periodo buio che si prende gioco e schernisce le forze “mistiche”, definite così perché non siamo in grado di vedere o di capire. E chi cerca di andare in là e cerca di uscire da tutto questo buio e cerca di portare il mondo fuori da questo buio è un folle?! “

Prese il cappotto, prese la cartella e la macchina da scrivere che aveva con sé,  l’uomo dalla bella barba curata lo interruppe, o almeno provò a farlo, ma il torrente era divenuto fiume,  e il fiume un fiume in piena,  e fu come voler fermare l’impeto delle acque con una diga di sabbia…

“ Se oggi per noi è una cosa normale che la terra sia una sfera, nell’epoca dell’  "idea di una Terra piana",  non si poteva concepire in altro modo,  perché i mari sarebbero crollati.
Ah beh certo..oggi!  Sì, lo sappiamo il perché.  Ma  all’epoca se uno immaginava, credeva, sentiva quasi, e,  cosa molto più pericolosa,  "affermava"  che ci fosse una forza misteriosa che tiene i mari attaccati alla terra, non era forse considerato un folle?! Idea balzana, forza che non si conosceva, che non faceva parte dell’universo conosciuto, estranea al mondo reale…e quindi..Folle! “
Non riusciva ad infilare la mano nella manica del cappotto liso e se lo gettò sulle spalle, poi,  il fiume riprese la sua corsa..

“ Quante follie per arrivare al mondo che conosciamo oggi. Quante follie ancora si devono fare?
Quante mele devono ancora cadere sulla testa di qualcuno affinché si possa uscire da quell’oscurità di cui siamo pregni.
Quante persone devono ancora vedere una nave all’orizzonte abbassarsi fino al camino e poi scomparire quasi inghiottita dal mare, per uscire da questo mondo che deve essere sempre e comunque sotto il controllo e sottomesso ad un senso di colpa continuo per poter mantenere un potere. Un potere che porta a nuovi roghi, a nuove streghe, e nuove inquisizioni, certo..più ‘moderne’ più ‘civili’. “

“ Ma noi siamo scienziati!! Guglielmo!! Non devi….”
ma la diga sabbiosa crollò..

 E la forza del fiume, rotti gli argini, si placò, riprendendo un corso tranquillo finalmente libera da vincoli. Quasi con serenità. Quella corrente quieta  continuò il suo percorso verso il mare..

“ Lasciami dire una cosa ancora,  visto che ti definisci un "uomo di scienza".
Una delle menti più grandi dei nostri giorni disse un giorno: “Ciò che a noi sembra impenetrabile esiste realmente. Dietro i segreti della natura c’è qualcosa di sottile, intangibile e inspiegabile.
La mia religione venera questa forza che va aldilà della nostra capacità di comprensione””

“ E chi è un filosofo?  Un mistico orientale?”  Lo interruppe con sarcasmo il compagno.

“No amico mio..uno scienziato, il professor Albert Einstein. E aggiunse anche che la religione del futuro sarà una religione cosmica. Trascenderà il Dio personale e lascerà da parte dogmi e teologia.”

Prese la macchina da scrivere, la cartella con i suoi appunti, e guardando un ultima volta il compagno rimasto con la bocca aperta e con la mano immobile sospesa sopra la barba ben curata, con un tono tranquillo aggiunse:

“ Tu vai pure avanti per la tua strada, io scendo qua, e vedrai che un giorno gli uomini capiranno  e crederanno anche in questo e vedrai che quel giorno,  disse fermando lo sguardo sul plico di fogli nella cartella, tu ricorderai questo momento.
E i folli di oggi diventeranno di colpo menti illuminate, e il mondo troverà altri folli da combattere.

Così dicendo, nell’imbarazzo del suo ormai ex collega, fra passeggeri attoniti che cercavano un qualcosa da fare, qualcosa da vedere, che cercavano di sistemare cravatte già a posto per non incrociare lo sguardo di quel personaggio strano, scese dal treno e con la follia  nella cartella che teneva in mano,  si avviò per quella città sconosciuta in  cerca di un caffè dove aspettare il prossimo treno che lo avrebbe riportato indietro, a casa, nel suo mondo di “folle” ma pieno di chiarezza, speranza e sensazioni che, a volte, solo la follia ti può dare.

UN BIANCHINO

Post n°13 pubblicato il 01 Agosto 2010 da paulget
Foto di paulget

Eh..vedi caro mio..è come camminare su un filo, bisogna fare gli equilibristi. E non tutti lo sono..

Quante volte ho sentito questa frase? Non saprei quantificare. Se poi ci metto anche la sua variante del “camminare sul filo di un rasoio”..che poi non ho mai capito..Vorrei conoscere qualcuno che lo ha fatto o ci ha provato. A camminare sul filo di un rasoio dico..


A quell’epoca nel Mondo di Sotto non era come oggi.

Si “respirava” una vita diversa, una vita scandita da mestieri, giochi, vite e anche morti diverse.
La superficie non si vedeva ancora come oggi. No..il cielo..sì, ci stava già un bel cielo. Un bel sole a volte. L’aria era anche più limpida forse, o di sicuro, ma sopra dico..sopra.
Quello che sta sopra il cielo..oltre. Sopra la superficie intendo! Ecco, avete capito. Sopra la superficie increspata del mare, confine naturale, dicono, col mondo di sopra..Eh! appunto..sopra il nostro cielo.
Non so se era perché tutti guardavano in basso, se nessuno mai avesse alzato gli occhi in modo diverso o semplicemente perché ci stava quella barriera oltre la quale i nostri sensi non arrivavano, un po’ come quando immerso nel mare con la tua bella maschera da sub, guardi gli scogli e il fondale verso terra e vedi la fine, che poi è l’inizio della spiaggia, ma se per caso, per un attimo, dai le spalle a tutto questo e guardi verso il largo che si apre su uno strapiombo e vedi il trasparente dell’acqua farsi azzurrino, poi blu, poi più scuro ancora e ad un certo punto la tua vista si blocca e si confonde in un tutto che ti fa quasi ingarbugliare gli occhi fino quasi a sentirli che si girano, roteano e devi distogliere lo sguardo su qualcosa di fisso, su qualcosa fisicamente caratterizzante, peculiare del nostro senso ottico . Qualcosa di “reale”..di reale..

Non so se Carlo avesse mai visto la superficie o se, come potrebbe sembrare a me oggi mentre ricordo, ci avesse fatto pure una capatina oltre quella superficie. Una puntata discreta, per usare un termine che lui stesso avrebbe poi usato con me.
Perché ai miei occhi di sedicenne Carlo era quello che gli altri dicevano che fosse. Un folle.
Un matto.
E noi, già nel nostro periodo di tempeste ormonali costrette dentro le “docevita” sintetiche di colori inconfessabili, che a ogni piccolo spiraglio fra le trame emanavano dolci effluvi che riempivano le classi affollate, lo vedevamo così. Un matto.
I nostri quattordici anni in cui, fedeli ad un copione già scritto per noi, chiamavamo Carlo “lo scoppiato”, senza saperne bene il motivo e, normalmente, senza chiedercelo.
Ma poi, quando gli scompensi cominciarono a prendere una direzione precisa, quando il nostro “noi” cominciò chi più chi meno ad essere “o carne” “o pesce” distanziandosi sempre di più da quel periodo in cui, ogni discorso a riguardo veniva liquidato con un “si sa..A quell’età non sei ne carne ne pesce”! Già, si sa..
Ma con quello che non si sa come la mettiamo?!

E questo mio desiderio di sapere mi portò per caso, se mai esistesse il caso anche all’epoca, ad avvicinarmi al mondo di Carlo “lo scoppiato”.
Dapprima da lontano. Da oltre il recinto diciamo. Da una bibita o un gelato preso nel bar del paese sedendomi al tavolino e guardando con occhio affamato quell’uomo tanto evitato quanto sconosciuto che si gustava il suo bel bianchino.
 Un cantautore che aveva visitato spesso il Mondo di Sotto, anni dopo avrebbe scritto una canzone definendo quei bianchini un “anonimo vino frizzante anidride” ed ogni volta che ascolto quella canzone non posso fare a meno di ricordare quei giorni.

Ma appena incrociavo con il mio sguardo il suo e i suoi occhi mi si piantavano dentro bloccandosi su di me come una telecamera che passa in rassegna un luogo e all’improvviso si blocca su un particolare e lo mette a fuoco, così io in quel momento vedevo il blu scuro del mare, che mi faceva subito per istinto guardare da un'altra parte alla ricerca di un punto fisso e ben definito dove trovare il mio equilibrio. Neanche fossi salito su di una fune sospesa a venti metri da terra.
Non ricordo in modo chiaro quando feci il primo passo. Ho provato ad aprire i cassetti più o meno pieni, più o meno impolverati della memoria, ho cercato fra tutte le cose che trovavo, ho trovato cose che non ricordavo neanche di aver messo  da parte in quel cassetto, ho rischiato di perdermi in altri pezzi della mia vita ma niente da fare.
Quel momento non l’ho trovato.

Però qualcosa ho trovato. Ho trovato l’attimo successivo, il fotogramma dopo, quello subito dopo ..l’attimo in cui io, armato dei miei sedici anni con barbetta d’ordinanza, entrai nel bar e con una normalità consumata dal tempo passato a studiare gli altri dissi..

“Un bianchino grazie!”

E in un momento tutti i gelati del freezer si squagliarono e formando un fiume vorticoso, melenso e di indescrivibile colore, andarono a sfociare nel mare dei miei ricordi insieme alle caramelle che rubavo dalla lattaia. All’epoca nella Terra di Sotto ci stavano le latterie. Anche oggi nella Terra di Sotto qualcuna ci sta ancora mi dicono. Ma quelle …

Il momento in cui mi trovai al banco davanti a quel bianchino lo ricordo molto bene. Oh  no! Non c’è  bisogno di aprire cassetti polverosi..
Ero un uomo eh! Vuoi mettere?
Hai mai provato a sedici anni a dire “mi da un arcobaleno” (ghiacciolo multi gusti  più o meno definiti  nella Terra di Sotto dell’epoca)  e dire invece “un bianchino grazie !” ??
Nononono!! Non ci sta proprio un paragone.. forse la prima volta che si fa sesso..ecco, forse..

Poco importa, come ci si sente o mi sentivo. Una cosa però è certa. Avevo messo piede sulla piattaforma dove iniziava la fune che, tirata, arrivava dall’altra parte sospesa nel vuoto.

E lui fu con me quasi subito.
Ecco, questo me lo fa ricordare spesso.
I fatto che già alla terza o quarta volta che ripetevo il rito con la frase magica ed ero già passato di "livello", seduto al tavolo a guardare gli altri giocare a carte, Carlo, seduto sulla “sua” sedia , perché lui aveva una sua sedia dedicata , si, ma non per un gesto di rispetto o cosa, ma perché non si sedesse al tavolo con le persone “normali”, vestite normali, pulite normali, sbarbate normali, non come lui, e lui da quella sedia mentre si rollava la sua sigaretta mi fece..
“Ti piace il bianchino?”
Beccato!!

No che non mi piaceva dio mio! Era aspro, legnoso, ti dava i brividi quando lo buttavi giù!!
Forse la pausa che feci prima di mentire spudoratamente e dire “Si! Buono..” forse perché lui era meno pazzo di quello che dicevano, fatto sta che mi guardò fisso, e per la prima volta riuscii a mettere a fuoco quel vortice…
Con un tono neutro che più neutro non si può disse“ fa schifo”.  E un attimo dopo mi ritrovai a chiedergli : “perché lo beve allora?”
“Per farli contenti! Perché mai! E perché costa poco e io un po’ di vino buono lo prendo da un amico che me lo regala e lo bevo in santa pace a casa da solo, quando vengo qui son tutti così felici di vedermi , di vedere il nano, la donna cannone, il funambolo, che non posso non farli contenti.”

E mi spiegò.

E io capii.
Capii che gli altri ti guardano quando sei diverso, quando ti comporti in maniera diversa, quando ti comporti in maniera più libera di loro, quando non percorri le tappe a tutti destinate con la loro stessa obbedienza, ti guardano contenti per vederti cadere! Perché diventano cattivi quando gli fai capire che quella che hanno loro non è libertà.
Allora devi  fare il nano, la donna cannone, il funambolo anche…ma mai, e dico mai, fargli vedere che ci riesci.
Perché il giorno che tu cammini sulla tua fune da bravo funambolo senza paura, in modo facile, e con leggerezza arrivi dall’altra parte e riprendi il percorso di nuovo, stai tranquillo che loro con un bel coltello, una bella forbice, quella fune te la tagliano e ti fanno cadere.

"Ma.. scusa", gli dissi, "se vivendo come fai devi vivere così sempre alla berlina degli altri sempre senza che gli altri ti diano un po’ di soddisfazione, perché non vivi come loro?? Sarebbe più facile!"
"E più tranquillo anche. Se fai come loro  non occorrerebbe più preoccuparsi sempre di non cadere da quella fune!"

Lui mi guardò..e con un sorriso non so quanto di gioia o più di soddisfazione mi disse :

“Son mica matto io !”


Gli anni son passati in fretta, e io con il ricordo di Carlo il Matto ho vagato per altri posti della Terra di Sotto, a volte un occhiata Sopra, camminando più o meno bene su un filo che in un certo modo ho cercato di abbassare più possibile a terra.
Perché ho capito che la paura non sta in quella striscia bianca che si srotola davanti a te, che poi non è diversa di un colpo di gesso a terra.
Se tu devi seguire una linea tracciata a terra non fai fatica a rimanere in equilibrio, ma se quella linea, quella striscia di gesso, ipoteticamente la sollevi un po’ da terra.. sempre di più , tutto diventa difficile.
Ma la striscia non cambia, la fune non cambia, quello che cambia è quello che vediamo sotto. Quello che cambia sono i punti di riferimento che non troviamo, che cerchiamo per fermare quel roteare della vista che ci fa cercare per istinto un punto fisso per poter fermare questo movimento innaturale per i nostri sensi fisici..
Forse un “altro” senso ci darebbe modo di non cercare più questo punto fisso e ci permetterebbe di mettere a fuoco l’infinito.
E di camminare sulla fune con una pace e tranquillità come su una riga tirata sull’asfalto.


Mi son trovato dopo tanto tempo in quel vecchio bar.
Gestito oramai dai figli del vecchio proprietario.
Seduto nei nuovi tavolini alla moda e gustando un buon Franciacorta, di moda nella Terra di Sotto in quel momento, ho avuto nostalgia per quel gusto aspro, legnoso, che metteva i brividi, del bianchino di sedicenne memoria. All’improvviso tutti cominciarono ad uscire, a salutare, e a poco a poco il bar si svuotò, lasciandomi solo  con un paio di clienti che, insieme al gestore, stavano per accendere la tv.
“Alla sera sempre calma vedo tutti a cena? Chiedo al proprietario.”

“No!” Mi fa ..”è che oggi.. non ha sentito? Ci sta quell’uomo che parla alla tv.”
“Su tutte le reti ci sarà.” mi fa l’altro cliente “Quello che è su nel mondo di sopra e che, dicono, viene dal mondo di sotto e con fatica piano piano, ha superato la superficie del mare e ora che sta li e lo hanno accettato vuole fare qualcosa per il suo vecchio mondo di sotto.”
“Ma ..perché.. Tu non vai ad ascoltarlo???"

E’ stato un attimo, a cambiarmi il moto di rabbia che mi saliva da dentro e stava per sfociare in qualche epiteto più o meno santo. E’ stato un attimo davvero. Un qualcosa da lontano..un qualcuno da lontano..
Un attimo, un ricordo..allora con un sorriso più che di gioia o scherno, di soddisfazione che, guardandolo negli occhi dissi..:

“Son mica matto io !”

E uscii, per raggiungere casa mia, dove con gesto solenne tirai fuori una bottiglia di vetro dall’etichetta strappata che illustrava un tempo quello che ora non conteneva più.
Mi sedetti davanti al tramonto, sui gradini di casa  e con il cuore colmo di gioia in equilibrio su una fune, sopra un mondo intero centellinai un bianchino “da asporto.” Aspro, legnoso, ma dolce come il miele ai miei sensi ritrovati.