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martedì 17 agosto 2010

Il Re è morto.Viva il Re!

Post n°20 pubblicato il 17 Agosto 2010 da paulget
Foto di paulget
Essenzialmente la televisione è più vicina alla vita reale di qualsiasi altro libro. La pazzia della televisione è la pazzia della vita. (Camille Paglia)

La normalità è il consentito.  (Paulo Coelho)





“Come diavolo è potuto succedere! Voglio da voi una spiegazione, e non una qualsiasi,
ma una spiegazione che mi possa far capire come diamine possa essere successa una cosa del genere!”

Il Re, pezzo d’uomo, sulla strada dell’autunno ormai  come i suoi capelli lasciavano intravedere, camminava avanti e indietro per l’immenso salone che faceva da studio personale, fermandosi a volte per rileggere di nuovo l’ultimo comunicato recatogli da uno dei suoi messi.
“Fino a ieri tutti, tutti voi, dicevate che avreste avuto sempre e in ogni caso la situazione in pugno, che il popolo sarebbe stato con me sempre, che mi avrebbero amato sempre e avrebbero accettato sempre di buon grado ogni cosa gli avessi proposto.”
Uno dei due servitori si sporse verso di lui per accennare qualcosa ma commise l’errore di avvicinarsi troppo.
Una mano forte e villosa arrivò sul suo viso come un raggio di sole improvviso, la mattina passata una collina, ti arriva agli occhi facendoteli chiudere. E così fu, li chiuse d’istinto, ma la forza che alimentava quel gesto non era paragonabile alla luce accecante del sole e lo scagliò, esile e minuto com’era, contro la vetrata che dava sul balcone, lo stesso dove fino a pochi giorni prima si affacciava con il suo padrone per i bagni di folla ormai usuali in tutti quegli anni.
Il fisico emaciato fu la sua salvezza, infatti, nonostante il forte colpo, il vetro tremò con fare sinistro lasciandolo a terra con gli occhi stretti e le mani a coprirsi la testa e ad aspettare la pioggia di schegge che lo avrebbe sicuramente investito.
 Il vibrare del vetro andò scemando, ed il servo alzando leggermente la testa da sotto le braccia, vide che aveva resistito. Un sospiro venne dal profondo, spezzato a metà da un calcio nello stomaco che lo fece rimanere in apnea come avessero consumato tutta l’aria intorno, come se fosse all'interno di una bolla senz'aria e lui, in mezzo, annaspante con la bocca aperta come un pesce fuori dall’acqua appena pescato.
Un dito tozzo, grosso, e minaccioso si stagliò contro di lui..
“E tu! Incapace che non sei altro – riprese il monarca- mi dici che sarebbe tutta colpa di un pozzo! Colpa dell’acqua di uno stramaledetto pozzo?!”
L’altro servitore fino ad ora in disparte, con la voce tremante, disse qualcosa come .” ascolti mio signore..” e il Re si girò di scatto fulminandolo cogli occhi  spiritati, mentre lui continuava con un coraggio figlio più della disperazione che di qualche virtù nascosta, “ se ci sediamo con calma posso spiegarle tutto in poche parole e potremmo così trovare una soluzione, a tal proposito mi son permesso di chiamare a palazzo il suo fedele amico, il mercante che già tante gioie ha diviso con voi.”

Quelle parole sembravano aver sortito l’effetto voluto e il Re, alzando la testa verso il panorama aldilà della vetrata ebbe subito un espressione diversa, mentre il secondo servo tenendosi a debita distanza aiutava il mingherlino a terra a rialzarsi il sovrano disse :- “ Va bene! E sia! Mandatelo a chiamare e parliamone con calma.”

Il mercante era un uomo arrivato a corte parecchi anni prima e tra mille proposte e affari buoni era entrato nelle grazie del regnante diventando anche piuttosto intimo tanto da organizzare pure le sue nozze, nel frattempo l’uomo usava il potere e le conoscenze del Re per accrescere i suoi averi.
Uomo sempre sorridente e affabile, severo quando si trattava di discutere seriamente se un terreno doveva essere usato a pascolo o usato per costruire delle nuove case, una serietà che incuteva timore ai tutti i consiglieri del Re e faceva a pugni con la sua non proprio prestante fisicità. Alto poco più di un metro e sessanta, faceva anche fatica a salire a cavallo, e le malelingue di palazzo dicevano che avesse dei rialzi dentro li stivali per sembrare più prestante.
Con il tempo però, aveva conquistato un po’ tutto il territorio intorno alle mura del castello e non c’erano botteghe, osterie, fabbri, o contadini che non fossero in mano sua. Tutto naturalmente con l’approvazione del Re che lo aveva aiutato non poco e gli aveva concesso molti dei suoi territori.
Per questo motivo il monarca si rasserenò al sentir il nome del suo grande amico.
Infatti, anche lui avrebbe avuto interesse ad evitare una rivolta popolare.


Il mercante entrò nel salone senza essere nemmeno annunciato, con un sorriso da gaudente stampato in faccia, e quando il Re lo vide, gli andò incontro abbracciandolo, facendo sembrare il piccolo uomo un bambino fra le sue vecchie ma ancora robuste spalle.
“Ascolta amico mio- esordì l’uomo- ora ti spiego come sono andate le cose e vedrai che una soluzione la troviamo. Dopo tante battaglie passate insieme vedrai che vinceremo anche questa.”
“Mio caro e fedele amico – disse il Re guardandolo negli occhi- qui il problema è grosso, la gente è impazzita e rischio non solo di perdere il regno e per ironia della sorte a questo punto mi andrebbe anche bene di perderlo, ma anche tutti i tesori che ho accumulato in questi lunghi anni di fatiche. Non pretenderai che mi faccia spogliare di tutto.”.
Il piccolo uomo guardò i servitori e disse:- “ Gli avete spiegato come stanno le cose? Cos’è successo davvero?” I due uomini si guardarono balbettando, a questo punto il re intervenne “No! Non hanno saputo far altro che blaterare dell’acqua, del pozzo del paese e altre scemenze simili.”.
“Infatti, è cosi “, lo interruppe il mercante, lascia che ti spieghi.
E così dicendo si sedette sul divano facendo cenno al Re di seguirlo. Un po’ sorpreso da un comportamento simile ma ormai disperato, il Re lo seguì e sedette accanto a lui.
“Vedi”, disse il mercante girandosi verso il Re, “ un uomo malvagio al soldo di altri uomini e streghe, per spodestarti e privarti del tuo regno, ha preparato una pozione magica che ha il potere di rendere pazzi gli uomini, e l’ha versata nottetempo nel pozzo del paese, dove tutti prendono l’acqua a parte te che hai un tuo pozzo personale, e tutto il popolo è impazzito, non capisce più quello che dici e che fino a ieri andava bene per loro. Anche tutto quello che hai fatto è diventato all’improvviso opera di un pazzo”.
Il Re sgranò gli occhi “ Ma se mi stai dicendo che sono loro a esser diventati pazzi, come sarebbe che sono io il pazzo! Io sarò il normale semmai!”
“Certo, caro amico –disse il mercante- ma loro sono tutti  pazzi e sono la maggioranza, e quindi se ne deduce che, essendo solo tu diverso, sei tu il pazzo per loro.”

“Consentimi..–il mercante si alzò dal divano invitando il Re a seguirlo- io una soluzione ce l’avrei per risolvere il tutto e darti la possibilità di uscirne bene”. Così dicendo lo prese sottobraccio e si allontanò dai consiglieri camminando lentamente vicino al Re, arrivati lontano da orecchie indiscrete davanti alla vetrata risparmiata dalla furia regale poco prima, disse:- "Certo che questa non è una bella situazione. In nome della nostra vecchia amicizia però avrei in mente un modo per dare a te la possibilità di mantenere le tue ricchezze e a me di aumentarle. Potremmo sfruttare la situazione che si è creata e girarla a nostro favore.”
“Dimmi come, ti ascolto!” esclamò il re con un aria fra il calmo e il supplichevole, l’aria di uno che pende oramai dalle labbra di un altro uomo piuttosto di finire ‘appeso’ in mezzo ad una piazza tra la folla inferocita.
“ Vedi.. tu dovresti abdicare". Così la gente sarebbe soddisfatta, e mettere al tuo posto una persona di cui si fidino e, che nello stesso momento ti permetterebbe di trovare riparo nel regno oltre il mare dal tuo amico Conte che sicuramente ti accoglierà a braccia aperte.
Il Re s'irrigidì, nella luce ambrata del tramonto che illuminava il suo volto provato ebbe un sussulto, come se i suoi sensori da esperto despota fossero entrati tutti in allarme a quelle parole.
Si girò verso il mercante che lo guardò con aria sorniona, l’aria di uno che ti dice con un sorriso:  “Sì..hai capito bene..”
“TU?” esclamò il Re e abbassando subito la voce aggiunse:- “Come farai tu a tenere a bada una folla che tu stesso hai definito pazza pochi minuti fa! ”
“Non ti preoccupare -rispose l’uomo- è il minimo per una persona come te che mi ha dato tanto, ho già un piano in mente. Tu, però, devi partire prima possibile.
Il Re restò in silenzio per un attimo che sembrò eterno, poi si girò verso il mercante e lo abbracciò.
“Grazie amico mio, sapevo che non mi avresti mai abbandonato, ma tu ora che farai, ora che resti solo contro un popolo che potrebbe farti perdere tutto quello che hai conquistato in questi anni”.
Il piccolo uomo lo guardò negli occhi e disse :-“Fidati..ci penso io!”
E così, con quest’ultimo abbraccio si suggellò il passaggio di consegne e il Re, affranto ma sollevato, si avviò verso lo scrittoio con passo lento che lo fece sembrare ancora più vecchio.
I consiglieri si guardarono e poi guardarono il mercante, da lontano lui fece un sorriso ed un cenno di intesa. Un sospiro silenzioso salì dai loro cuori.


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“Signori, sono pronto!”
Il nuovo Re stava davanti ai pesanti intarsi di legno e ferro del portale che si apriva sulla piazza del paese, circondato dalle sue guardie, bardato di tutto punto, ma non troppo appariscente, si era preparato con cura.
Negli ultimi giorni si era fatto preparare tutta una serie di messaggi distribuiti ai suoi nuovi messi che li avevano letti in tutti gli angoli delle strade e, ormai, il popolo era curioso di vedere e sentire cosa avesse da dire questo mercante che aveva spodestato, secondo la loro opinione dovuta all’intruglio nel pozzo, un Re folle e ladro.
Ora era il momento, si assicurò che la piazza fosse piena e diede il segnale.
Le porte si aprirono.

Un grande sorriso illuminò il volto dell’ex mercante, mentre la folla si apriva come acque bibliche al suo passaggio per richiudersi subito alle sue spalle, il che preoccupò non poco le guardie che stavano intorno al loro sovrano.
 Lui era sicuro. Sicuro nel passo, nel sorriso, nello sguardo, ma si guardava bene dal parlare, essendo considerato ancora, dalla gente sotto incantesimo, un folle, anche se, a detta dei messaggeri che inviava in incognito fra la gente, serpeggiava un velo di ottimismo fra il popolo.

Arrivò in cima alla piazza, davanti al pozzo. Ordinò ai suoi servi di attingervi un po’ d’acqua.
La gente, incuriosita, cominciava a mormorare.
Appena il secchio fu pieno, lui , da una delle tasche, prese un bicchiere di rame preso nelle cucine, lo immerse in quell’acqua fresca e  bevve tutto d’un fiato.
Per un attimo si guardò intorno, poi all’improvviso, senza nessun preavviso una fiammata gli salì da dentro, un calore che dalle gambe arrivava sempre più su, fino al petto, ancora più su fino alla testa e, come se non potesse uscire da nessuna parte, gli scaldò anche gli occhi. Poi cessò.
Si girò verso la piazza ormai ammutolita.
E parlò..
La gente disse subito: "Questo sì che si capisce quando parla."

E regnò in tranquillità per molti anni ancora, salvando le sue proprietà insieme a quelle dell’amico.

Sassi

Post n°18 pubblicato il 14 Agosto 2010 da paulget
Foto di paulget
“Le pietre respirano”.

Mi tornano alla mente queste parole mentre cammino lungo la strada delimitata da muri a secco.
Se uno mi chiedesse ora, quanti anni fa ho sentito questa affermazione, mi troverebbe impreparato.
Non saprei trovare un periodo esatto nella memoria.
O forse è solo un' idea.
Idea. “l’essenza, la forma archetipica delle cose di là dai loro aspetti particolari e accidentali, conoscibile attraverso la pura attività intellettiva” scriveva Platone.
 Le idee possono essere sostanza, contenuto, fondamento, nocciolo, nucleo, filo conduttore, o semplicemente sensazioni che nascono dal di dentro, dal fondo di noi stessi, da quella parte di noi stessi che esisteva molto prima che noi potessimo dire “sono consapevole di pensare”.
L’inconscio, che ha a disposizione molti più dati della piccola e giovane coscienza, riesce forse ad avere una visione più globale e integrata delle cose?

Le pietre sembrano paragoni forse rozzi, di quel tesoro che abbiamo in fondo al nostro pozzo scuro e che accompagna la nostra coscienza nei riti quotidiani, ma che esisteva già prima di noi.
Prima di me.  Osservo una pietra e penso a quanto ha visto prima di me.

“ Ehi parlo con te! Mi senti Guido?”
Il mio compagno di avventure mi agita la mano davanti al viso sorridendo e scoprendo quel suo dente spaccato che rifiuta sistematicamente di riparare.
 “Non è per i soldi Guido - mi disse un giorno- è perché la gente mi presta più attenzione ora quando parlo o sorrido". Quanto mi ha fatto pensare quella frase.

“Scusa, stavo pensando a una cosa..”
“Eh..al solito! Ascolta, si va a trovare tuo padre oppure no. Io mi son preparato lo zaino, non è che  cambi idea all’ultimo momento.”
E dicendolo si girò con il suo immancabile filo d’erba in bocca squadrandomi come volesse entrarmi negli occhi.
“Vittorio, no che non cambio idea, ma non sono sicuro che la moto ci possa portare fino a laggiù senza darci problemi”
Si fermò. Ora il suo sguardo era un mezzo sorriso, di quelli che certe persone hanno stampato in faccia quando un campanello d’allarme immaginario suona dentro di loro, quasi che le tue parole avessero toccato dei fili collegati a un sonaglio dentro la loro testa.

“Guido – disse guardandomi negli occhi – quanto tempo è che ci conosciamo tu ed io.”
“Non cominciare Vittorio il problema è che..”
“Il problema? Te lo dico io qual è il tuo cavolo di problema Guido!”
“Quando mai ti sei fatto problemi di questo tipo?" Quando mai sei stato indeciso se partire o no, che fosse andare in Inghilterra, oppure in Svizzera?”
“No mio caro tu non me la racconti giusta!”

Beh, ci conoscevamo da un bel po’ davvero. Da quando? Da sempre forse.
Il ricordo della mia prima sigaretta lo vede vicino  mentre m’insegna come far andare via l’odore sputando di continuo la saliva con una gomma in bocca. Mentre faccio scorrere il pensiero al mio primo esame importante, quello delle scuole elementari, giro gli occhi e lo vedo lì, due banchi più in là.
E quanti gomiti abbiamo consumato sui banconi di bar e osterie, più o meno degne di questo nome.
Forse, come l’inconscio, anche lui esisteva prima che venissi al mondo io, come le pietre di quella strada di campagna che innumerevoli volte abbiamo percorso, prima da bimbi con le biciclette, poi da adolescenti con il mondo ancora da scartare, ora da uomini a parlar di puttanate e ricordare il passato a volte, che non era mai, dico mai, come lo avremmo voluto.
Perché quei viaggi, quelle scorribande, quelle che a noi sembravano avventure di vita vissuta ci avevano lasciato dentro sempre una malinconia o un rimpianto, un “se” oppure un “ma” e poco serviva dire, come usava pontificare lui a volte, quasi fosse un concetto Aristotelico:  "Con i “se” o i “ma” non si gioca a calcio e neanche si vive caro mio."

A quanto corrispondevano tutti quegli anni, rapportati al respiro di quelle pietre che sempre ho trovato lì al mio ritorno.
Questo è quello che avevo pensato in quel momento e non se la moto ci potesse lasciare o no in strada.
Ho sentito la pochezza di questa mia vita, la velocità con la quale corre via, l'infinitesima parte in rapporto a quei sassi intorno a me.
E mi son chiesto se era ancora tempo di far finta di niente e tenere separati ancora la mia piccola e fallace coscienza dalla pietra, dura, vecchia e saggia che è il mio inconscio.
Posso sentire respirare le rocce, mi chiedevo.  Sbagliavo la domanda.
Posso sentir respirare il mio inconscio, era la domanda giusta.
E, se il passato non si può cambiare, potrei cambiare il futuro?
Altro quesito errato.
Posso cambiare il mio passato, era quello giusto.
E in un attimo in quello che per me è stato un secondo, ma chissà per Vittorio quanto, ho capito questo mentre mi guardava con quel piglio indagatore.
Devo vivere il presente come vorrei fosse il mio passato nel futuro. 
E ora dovrei a spiegare a Vittorio cosa?  Questo?
Un “qualcuno” un “qualcosa” da dentro mi disse: è sempre stato con te, se lo sarà ancora non dipende da te ma dalla sua coscienza. Non puoi fingere di non esser cambiato.

Allora, staccai i miei occhi dai suoi e voltai lo sguardo verso il mare. Appoggiai con una pacca la mano su una pietra calda per il sole, che stava lì,  in attesa del gatto di turno che nella fresca serata sarebbe andato a godersi quel giaciglio così tiepido.
E, con calma, gli dissi:

“Lo sai che le pietre respirano?”

Di mocassini, di persone e di ombre.

Post n°17 pubblicato il 09 Agosto 2010 da paulget
Foto di paulget
Il sognatore su di una grossa moto vede sul marciapiede un collega che lui sa essere il migliore nel loro settore in città. Si accorge in quel momento in cui è roso dall'invidia,d’avere un pene lunghissimo, e sottilissimo ravvolto a fune, che gli ostacola la guida. L’ombra come il solito coprì la scena.
La sognatrice entra in un palazzo dai grandi saloni.
Nascosta, assiste al turpe lavoro che là dentro, per opera di una megera, si va compiendo: giovani donne vengono pietrificate e quella di turno, come tutte le altre, lascia fare limitandosi a chiedere che non le venga fatto sentir dolore. Un ombra oscurò la scena
 Il sognatore scorrazza spensierato e frivolo nel deserto a bordo di un carretto trainato da un cane. Si ritrova a casa dei suoi genitori, dove un sacerdote dice che nel deserto è giusto andarci solo per trovare Dio.
L’ombra arriva puntuale a chiudere il sipario avvolgendo i suoi genitori insieme al prete.


L’uomo si era alzato presto quella mattina.
Con gesti automatici e consueti aveva preparato il poco caffè “Touba” che gli era rimasto.
Donne pazienti, colorate e sorridenti avevano tostato quei chicchi miscelati con il djar e altrettanto pazientemente, con mano sapiente da una vita di automatismi insegnati e più o meno imposti, avevano separato il seme di djar piccante prima della macinatura che avrebbe reso pronto per l’uso quel caffè tanto strano quanto profumato.
Aveva acceso la radio con un gesto, che per tanto abituale e inconsapevole,  poteva essere compiuto anche dal gatto di casa. A volte il gatto lo faceva pure.
Il tempo per le abluzioni quotidiane aveva portato via gli ultimi cinque minuti prima della recita automatica del solito rito, dove “bismillah al-rahmani rahim e amin , scivolavano nell’aria come il caffè preparato o l’accensione della radio.
Quando uscì di casa, intento a pensare al discorso che avrebbe dovuto fare al suo collaboratore che il giorno prima aveva incasinato  un affare già chiuso e che lo aveva tenuto sveglio quella notte in cerca di soluzioni più o meno intelligenti e rapide, un odore di fiori e di erba bagnata lo avvolse, come una forza che vuole entrare, penetrare, o per lo meno farsi sentire parandosi davanti gridando “ehi!!! Mi vedi? Sono qui! Davanti a te! Dietro a te!

L’uomo ebbe un brivido che lo infastidì non poco facendogli  pensare quanto fosse assurdo che ci sia un fresco del genere ancora la mattina presto per poi passare il resto della giornata a ripararsi da un sole che non risparmiava niente e nessuno.
Tornò ai suoi pensieri e si avvio con passo svelto fra gli alberi mossi da una piccola brezza e i fili d’erba bagnati da una magia della notte che aveva posato il suo nutrimento sulle foglie e gli steli assetati.
Un camion che passava lo spinse ancora di più sul limite della carreggiata finendo con i suoi sandali scamosciati sull’erba bagnata. Una sgradevole sensazione lo avvolse di nuovo. Anche la rugiada ci mancava.
Ora, mentre pensava agitato se si sarebbero asciugate in tempo le macchie di bagnato sulle sue Stonefly nuove prima del suo arrivo alla riunione, ricordava le parole che la sera prima al telefono il  presidente della società in persona, un attimo prima di chiudere la comunicazione, gli aveva lasciato lì, come un discorso in sospeso, come un "ma" come un "se"..
“Sono sicuro che lei, con la sua presenza, la sua persona sempre precisa è curata, la considerazione che per questi e altri motivi gode nell’ambiente, saprà sicuramente prendere la decisione migliore per la nostra azienda.”
Esatto! E lui sarebbe dovuto arrivare con le scarpe macchiate da quell'erba bagnata. E poi cosa ci voleva a coprire con l’asfalto anche i bordi della strada.

Già prima che il progetto fosse messo in pratica, con il geologo impegnato a correre fra un punto e l’altro in vari appezzamenti di terreno, alla ricerca di una continuazione della scarica elettrica, si sapeva benissimo che un giorno si sarebbe alzato dalla sua sedia  portatile per dire:  qui! Questo è il posto adatto, qui si può scavare. Indifferentemente da dove si sarebbe trovata l'acqua, avrebbero dato il via ai lavori dell’ennesimo Château d'Eau.
Il fatto che quello fosse un terreno coltivato e che sarebbe stata completamente snaturata l’area era un problema secondario.
Il terreno, come quasi tutti, era di proprietà dello Stato e lo stato li affittava, con contratti anche di novantanove anni certo, che davano la sensazione a chi lo lavorava e ci viveva che fosse suo quasi di diritto dopo la seconda generazione.
 Lo Stato decideva. Lo Stato poteva in certi casi espropriarlo, se poi la società che doveva occuparsi dei lavori era una grande riserva di voti per il presidente in carica il gioco era fatto.
E quello scemo di ragazzo senza palle si era fatto metter i piedi in testa da una massa di contadini e allevatori proponendo dei siti alternativi e nuovi sondaggi!
Era bastata una telefonata.
Era già risolta la questione. Mancava solo il dover recuperare affidabilità agli occhi degli altri soci che partecipavano all’impresa.
L’uomo  si avviò, con questa sua bella convinzione e sicurezza alla riunione che lo aspettava, guardando di tanto in tanto i suoi bei mocassini inglesi in attesa che il caldo in arrivo facesse il suo lavoro e li riportasse alla perfezione originaria.
E con questa “speranza” si avviò verso la sede aldilà della strada, mentre il sogno assurdo fatto nell’unica ora in cui era riuscito a prender sonno, tornò nella sua mente strappandogli un sorriso per quanto irrazionale e ridicolo fosse.


La donna al volante era nervosa.
Lo sapeva! Ne era sicura!  Aveva ritardato di quei dieci minuti maledetti l’uscita da casa.
E ora il serpente di macchine che portava al centro di quella caotica metropoli la aveva avvolta fra le sue spire.
E non poteva fare altro che abbandonarsi alla corrente di quel fiume fumoso che sarebbe sfociato nella centrale piazza dell’Indipendenza.
Un ragazzino che avrà avuto dieci anni camminava con in testa un sacco di erba e di semi.
Un camion stracolmo di arachidi cercava in tutti i modi di farsi largo fra le macchine per passare nell’altra fila dove la corrente sembrava più forte.
Il semaforo, per l’ennesima volta passò da rosso a verde e lei per l’ennesima volta sentì montare la rabbia dentro. Possibile che io debba stare qui, ferma, a guardare un incrocio che non esiste più?
L’ennesimo camion diretto alla spremitura delle arachidi passò di corsia e schizzo aldilà di quel crocevia oramai senza regole. In un attimo gli fu dietro accelerando per non perdere l’“ariete” che avrebbe segnato il percorso anche a lei.
Fu un attimo. L’attimo seguente  allo scarto di lato del rimorchio davanti a lei e se lo trovò davanti.

Il ricordo, che gli sarebbe rimasto nella mente per anni, la straordinaria lucidità con cui, in quell’istante che parve eterno notò, assurdo quasi come un sogno, i mocassini color ocra ai piedi dell’uomo, mentre volava sul cofano della sua macchina per sbattere poi sul parabrezza immediatamente trasformato in una tela degna del miglior ragno.




L'uomo con i suoi mocassini oramai asciutti , decise in quel momento di attraversare quel caos di macchine e camion che gli si parava davanti.
I semafori in quei casi sono veramente “creature ornamentali”. Segnano un confine che non c’è.
E, ridicoli come possono essere solo in quell’angolo di terra che si affacciava sull’Atlantico, continuavano a cambiar colori neanche fossero alberi di Natale che aveva visto tante volte nei suoi viaggi in Europa.
Non la vide arrivare,  solo un ombra poi una forza sovrumana lo sollevò da terra e poi il colpo.
Quel colpo che non avrebbe mai dimenticato. Il mondo si oscurò, per poi esplodere in mille galassie luminose. Poi fu il buio.


Il sognatore sta scalpellando il legno di un pavimento per giungere alle venature più pure. E’ molto stanco ma un vecchio al suo fianco lo induce a continuare perché-egli dice- il Profeta ha svolto più lavoro di te. Il sognatore insiste e intanto il Vecchio muore. Il sognatore piange a dirotto e il vecchio si siede dicendogli che è contento di averlo visto piangere per lui. Dopodiché torna a morire.

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Aprì gli occhi.
Ancora scosso dall’ultimo sogno, li chiuse di nuovo come a voler tenere ferme ancora per un po’ quelle immagini. Qualcosa di strano. Qualcosa di diverso aveva attirato la sua attenzione.  L’’ultima parte del sogno era uguale ma nello stesso tempo diversa dalle altre.
Qualcosa gli sfuggiva. E strinse ancora un po’ le palpebre neanche la forza con cui avrebbe stretto fosse direttamente proporzionale al ricordo, alla possibile reminescenza che stava cercando.

Ma fu subito un tripudio di odori, di suoni.
Stava sognando di nuovo?
Aprì gli occhi e i suoni rimasero. Gli odori divennero ricordi e i ricordi lacrime.
Di gioia. Di commozione vera. Ora ricordava cosa fosse quella sensazione diversa nell’ultimo sogno. Mancava l’ombra, quella che chiudeva sempre il sipario sulle sue precedenti visioni inconsce.

Il gatto gli saltò addosso. E stirandosi come solo i gatti sanno fare emise un miagolio che non aveva mai sentito prima.
Si alzò dirigendosi verso la cucina. Sedette con la testa fra le mani, e con gesto ormai abituale, cercò la cicatrice lasciata dall’operazione con cui un chirurgo sveglio e intraprendente, mesi prima, lo strappò dal buio in cui era precipitato.
Molti mesi erano passati. E il primo risveglio a casa dopo tanti all’ospedale fu quanto di più diverso poteva aspettarsi.
Il gatto, accucciato vicino alla ciotola del cibo emise un miagolio. La voce in lontananza del muezzin arrivava ovattata dentro il "pacco" di cinguettii, di automobili che sfrecciavano veloci, di discorsi fatti ad alta voce fuori dalla bottega di calzolaio di fronte a casa sua.
Diede da mangiare alla bestiola, restando lì a fissarla  mentre gustava il suo cibo intervallato da strusciamenti fatti sulla sua gamba.
Prese il caffè Touba dal vaso. E in un attimo tutti i profumi del suo passato lo accecarono come uno schiocco di sole in una piantagione di arachidi nella periferia di Dakar.
Donne pazienti, colorate e sorridenti avevano tostato quei chicchi miscelati con il djar e altrettanto pazientemente, con mano sapiente da una vita di automatismi insegnati e in parte imposti, avevano separato il seme di djar piccante prima della macinatura che avrebbe reso pronto per l’uso quel caffè tanto strano quanto profumato.
Ora, mentre lo sorseggiava piano, sentiva inconfondibile il retro gusto piccante dato da quella spezia etiope miscelata al caffè.
Fu il caffè migliore della sua vita.
Le abluzioni durarono un’eternità.
E i “bismillah al-rahmani rahim e amin quella mattina erano muti. Non provenivano più dalla sua bocca. ma da dentro di sé.
Sentiva il suo corpo, la sua persona , distante, quasi la guardasse dal di fuori.
E mentre, in meditazione terminava la preghiera, capì.

Uscì nell’aria ancora dolcemente fresca del mattino che dava quel brivido stupendo, fra gli alberi mossi da una piccola brezza e i fili d’erba bagnati da una magia della notte che aveva posato il suo nutrimento sulle foglie e gli steli assetati. Quelle foglie ricche di rugiada dissetate da una natura, da sempre madre giusta e premurosa.
Si tolse i mocassini oramai inzuppati, e camminò a piedi scalzi fra l’erba umida, salutando con una gioia mai provata prima i bottegai che riaprivano le loro attività.
Arrivò al bivio che dava sulla statale che lo avrebbe portato verso l’ufficio dopo tanti mesi di assenza.
Ma vide l’altra strada. Quella che non aveva mai notato. Quella opposta alla direzione che era solito prendere in quel crocevia.
Quella che portava alla Langue du Barbare, quella lingua di terra che separava il fiume dall’oceano. Il luogo della sua infanzia e giovinezza, popolato di donne che  tostavano il caffè, e di uomini che si preparavano alla pesca.

Si sedette su di una pietra fra l’erba ai bordi della strada con le scarpe in mano.
Gli salì alla mente il ricordo dell’ombra  scomparsa dai suoi sogni. La rivide con gli occhi di allora ma la consapevolezza di oggi. Un po’ ridicola e un po’ minacciosa.
E lui la aveva incontrata e  accettata, e ne aveva scoperto la parte positiva.
E quella mattina, all’ospedale un po’ di giorni dopo il risveglio dal coma, lo specchio gli aveva restituito un’immagine diversa da quella cui era abituato. Gli aveva restituito ciò che lui non amava vedere. E lui quel giorno decise di guardare quell’immagine.
E la maschera, l’identità di copertura, in cui si è ciò che gli altri vogliono che noi si sia o quello che noi amiamo pensare di essere, quel giorno non prese forma.


Si mise i mocassini impolverati e a braccetto della sua nuova vita si avviò verso la costa. Di tempo ne aveva ora.
La mano nella tasca strinse forte la lettera di dimissioni che conteneva. La avrebbe consegnata più tardi.


Storie di STRA-ordinaria Follia

Post n°15 pubblicato il 04 Agosto 2010 da paulget
Foto di paulget
La follia, mio signore, come il sole se ne va passeggiando per il mondo, e non c'è luogo dove non risplenda. (William Shakespeare)



“Tu dici? Non è forse che viviamo anche ora in un epoca oscura? “ chiese l’uomo al suo compagno di viaggio.
“Quello che io credo o non credo non ha nessuna importanza “rispose l’uomo “ l’importante per noi ora è salvare il salvabile, a cominciare dal nostro progetto. Il punto essenziale, quello da cui dipende la riuscita del nostro lavoro futuro è quello di dare a loro quello che vogliono, dare a loro ciò che loro possano accettare e senza che abbiano motivo di credere, solo sulla base di una possibilità,  in quello che noi vogliamo creare. “

L’uomo si massaggiò la barba ispida ma ben curata, cambiò posizione sporgendosi in avanti per avvicinare di più il suo viso a quello dell’amico e collega e, quasi in un sussurro, disse : “ A meno che tu non voglia passare per un folle, a meno che tu non voglia esser tacciato come tale e portare avanti i tuoi “esperimenti” da solo senza il becco di un quattrino. “

L’altro, seduto di fronte, si tolse gli occhiali con cui stava scorrendo alcune pagine di un  manoscritto e, con gli occhi fissi in quelli dell’uomo disse in tono neutro “ In culo loro e i loro soldi..”

“ Ma..cosa stai dicendo- gli rispose l’uomo -se...”  ma lui non sentì più nulla, si alzò nello stesso momento in cui il treno si fermava, rischiando di finire addosso all’amico e tutto cambiò;  il ruscello crebbe e diventò un torrente.

“ Non avremmo forse un mondo ancora fermo al medioevo senza quelli che tu chiami folli!?
Non sarà che non siamo mai usciti e mai usciremo da quell’oscurantismo che crediamo far parte di epoche  passate, remote, di cui sorridiamo e  a volte ci stupiscono?
Non è che oggi l’oscurantismo esiste ancora, e noi non ce ne rendiamo conto? “ e il torrente si ingrossò ancora…
“ Forse  nemmeno all’epoca se ne rendevano conto?  Come un pesce che nuota nel mare e, se gli parlano del mare, non sa cosa sia perché ne è avvolto, come l’aria che respiriamo di cui noi siamo avvolti, non ce ne rendiamo conto perché ne siamo immersi.?
Immersi  oggi come ieri in un periodo buio che si prende gioco e schernisce le forze “mistiche”, definite così perché non siamo in grado di vedere o di capire. E chi cerca di andare in là e cerca di uscire da tutto questo buio e cerca di portare il mondo fuori da questo buio è un folle?! “

Prese il cappotto, prese la cartella e la macchina da scrivere che aveva con sé,  l’uomo dalla bella barba curata lo interruppe, o almeno provò a farlo, ma il torrente era divenuto fiume,  e il fiume un fiume in piena,  e fu come voler fermare l’impeto delle acque con una diga di sabbia…

“ Se oggi per noi è una cosa normale che la terra sia una sfera, nell’epoca dell’  "idea di una Terra piana",  non si poteva concepire in altro modo,  perché i mari sarebbero crollati.
Ah beh certo..oggi!  Sì, lo sappiamo il perché.  Ma  all’epoca se uno immaginava, credeva, sentiva quasi, e,  cosa molto più pericolosa,  "affermava"  che ci fosse una forza misteriosa che tiene i mari attaccati alla terra, non era forse considerato un folle?! Idea balzana, forza che non si conosceva, che non faceva parte dell’universo conosciuto, estranea al mondo reale…e quindi..Folle! “
Non riusciva ad infilare la mano nella manica del cappotto liso e se lo gettò sulle spalle, poi,  il fiume riprese la sua corsa..

“ Quante follie per arrivare al mondo che conosciamo oggi. Quante follie ancora si devono fare?
Quante mele devono ancora cadere sulla testa di qualcuno affinché si possa uscire da quell’oscurità di cui siamo pregni.
Quante persone devono ancora vedere una nave all’orizzonte abbassarsi fino al camino e poi scomparire quasi inghiottita dal mare, per uscire da questo mondo che deve essere sempre e comunque sotto il controllo e sottomesso ad un senso di colpa continuo per poter mantenere un potere. Un potere che porta a nuovi roghi, a nuove streghe, e nuove inquisizioni, certo..più ‘moderne’ più ‘civili’. “

“ Ma noi siamo scienziati!! Guglielmo!! Non devi….”
ma la diga sabbiosa crollò..

 E la forza del fiume, rotti gli argini, si placò, riprendendo un corso tranquillo finalmente libera da vincoli. Quasi con serenità. Quella corrente quieta  continuò il suo percorso verso il mare..

“ Lasciami dire una cosa ancora,  visto che ti definisci un "uomo di scienza".
Una delle menti più grandi dei nostri giorni disse un giorno: “Ciò che a noi sembra impenetrabile esiste realmente. Dietro i segreti della natura c’è qualcosa di sottile, intangibile e inspiegabile.
La mia religione venera questa forza che va aldilà della nostra capacità di comprensione””

“ E chi è un filosofo?  Un mistico orientale?”  Lo interruppe con sarcasmo il compagno.

“No amico mio..uno scienziato, il professor Albert Einstein. E aggiunse anche che la religione del futuro sarà una religione cosmica. Trascenderà il Dio personale e lascerà da parte dogmi e teologia.”

Prese la macchina da scrivere, la cartella con i suoi appunti, e guardando un ultima volta il compagno rimasto con la bocca aperta e con la mano immobile sospesa sopra la barba ben curata, con un tono tranquillo aggiunse:

“ Tu vai pure avanti per la tua strada, io scendo qua, e vedrai che un giorno gli uomini capiranno  e crederanno anche in questo e vedrai che quel giorno,  disse fermando lo sguardo sul plico di fogli nella cartella, tu ricorderai questo momento.
E i folli di oggi diventeranno di colpo menti illuminate, e il mondo troverà altri folli da combattere.

Così dicendo, nell’imbarazzo del suo ormai ex collega, fra passeggeri attoniti che cercavano un qualcosa da fare, qualcosa da vedere, che cercavano di sistemare cravatte già a posto per non incrociare lo sguardo di quel personaggio strano, scese dal treno e con la follia  nella cartella che teneva in mano,  si avviò per quella città sconosciuta in  cerca di un caffè dove aspettare il prossimo treno che lo avrebbe riportato indietro, a casa, nel suo mondo di “folle” ma pieno di chiarezza, speranza e sensazioni che, a volte, solo la follia ti può dare.

UN BIANCHINO

Post n°13 pubblicato il 01 Agosto 2010 da paulget
Foto di paulget

Eh..vedi caro mio..è come camminare su un filo, bisogna fare gli equilibristi. E non tutti lo sono..

Quante volte ho sentito questa frase? Non saprei quantificare. Se poi ci metto anche la sua variante del “camminare sul filo di un rasoio”..che poi non ho mai capito..Vorrei conoscere qualcuno che lo ha fatto o ci ha provato. A camminare sul filo di un rasoio dico..


A quell’epoca nel Mondo di Sotto non era come oggi.

Si “respirava” una vita diversa, una vita scandita da mestieri, giochi, vite e anche morti diverse.
La superficie non si vedeva ancora come oggi. No..il cielo..sì, ci stava già un bel cielo. Un bel sole a volte. L’aria era anche più limpida forse, o di sicuro, ma sopra dico..sopra.
Quello che sta sopra il cielo..oltre. Sopra la superficie intendo! Ecco, avete capito. Sopra la superficie increspata del mare, confine naturale, dicono, col mondo di sopra..Eh! appunto..sopra il nostro cielo.
Non so se era perché tutti guardavano in basso, se nessuno mai avesse alzato gli occhi in modo diverso o semplicemente perché ci stava quella barriera oltre la quale i nostri sensi non arrivavano, un po’ come quando immerso nel mare con la tua bella maschera da sub, guardi gli scogli e il fondale verso terra e vedi la fine, che poi è l’inizio della spiaggia, ma se per caso, per un attimo, dai le spalle a tutto questo e guardi verso il largo che si apre su uno strapiombo e vedi il trasparente dell’acqua farsi azzurrino, poi blu, poi più scuro ancora e ad un certo punto la tua vista si blocca e si confonde in un tutto che ti fa quasi ingarbugliare gli occhi fino quasi a sentirli che si girano, roteano e devi distogliere lo sguardo su qualcosa di fisso, su qualcosa fisicamente caratterizzante, peculiare del nostro senso ottico . Qualcosa di “reale”..di reale..

Non so se Carlo avesse mai visto la superficie o se, come potrebbe sembrare a me oggi mentre ricordo, ci avesse fatto pure una capatina oltre quella superficie. Una puntata discreta, per usare un termine che lui stesso avrebbe poi usato con me.
Perché ai miei occhi di sedicenne Carlo era quello che gli altri dicevano che fosse. Un folle.
Un matto.
E noi, già nel nostro periodo di tempeste ormonali costrette dentro le “docevita” sintetiche di colori inconfessabili, che a ogni piccolo spiraglio fra le trame emanavano dolci effluvi che riempivano le classi affollate, lo vedevamo così. Un matto.
I nostri quattordici anni in cui, fedeli ad un copione già scritto per noi, chiamavamo Carlo “lo scoppiato”, senza saperne bene il motivo e, normalmente, senza chiedercelo.
Ma poi, quando gli scompensi cominciarono a prendere una direzione precisa, quando il nostro “noi” cominciò chi più chi meno ad essere “o carne” “o pesce” distanziandosi sempre di più da quel periodo in cui, ogni discorso a riguardo veniva liquidato con un “si sa..A quell’età non sei ne carne ne pesce”! Già, si sa..
Ma con quello che non si sa come la mettiamo?!

E questo mio desiderio di sapere mi portò per caso, se mai esistesse il caso anche all’epoca, ad avvicinarmi al mondo di Carlo “lo scoppiato”.
Dapprima da lontano. Da oltre il recinto diciamo. Da una bibita o un gelato preso nel bar del paese sedendomi al tavolino e guardando con occhio affamato quell’uomo tanto evitato quanto sconosciuto che si gustava il suo bel bianchino.
 Un cantautore che aveva visitato spesso il Mondo di Sotto, anni dopo avrebbe scritto una canzone definendo quei bianchini un “anonimo vino frizzante anidride” ed ogni volta che ascolto quella canzone non posso fare a meno di ricordare quei giorni.

Ma appena incrociavo con il mio sguardo il suo e i suoi occhi mi si piantavano dentro bloccandosi su di me come una telecamera che passa in rassegna un luogo e all’improvviso si blocca su un particolare e lo mette a fuoco, così io in quel momento vedevo il blu scuro del mare, che mi faceva subito per istinto guardare da un'altra parte alla ricerca di un punto fisso e ben definito dove trovare il mio equilibrio. Neanche fossi salito su di una fune sospesa a venti metri da terra.
Non ricordo in modo chiaro quando feci il primo passo. Ho provato ad aprire i cassetti più o meno pieni, più o meno impolverati della memoria, ho cercato fra tutte le cose che trovavo, ho trovato cose che non ricordavo neanche di aver messo  da parte in quel cassetto, ho rischiato di perdermi in altri pezzi della mia vita ma niente da fare.
Quel momento non l’ho trovato.

Però qualcosa ho trovato. Ho trovato l’attimo successivo, il fotogramma dopo, quello subito dopo ..l’attimo in cui io, armato dei miei sedici anni con barbetta d’ordinanza, entrai nel bar e con una normalità consumata dal tempo passato a studiare gli altri dissi..

“Un bianchino grazie!”

E in un momento tutti i gelati del freezer si squagliarono e formando un fiume vorticoso, melenso e di indescrivibile colore, andarono a sfociare nel mare dei miei ricordi insieme alle caramelle che rubavo dalla lattaia. All’epoca nella Terra di Sotto ci stavano le latterie. Anche oggi nella Terra di Sotto qualcuna ci sta ancora mi dicono. Ma quelle …

Il momento in cui mi trovai al banco davanti a quel bianchino lo ricordo molto bene. Oh  no! Non c’è  bisogno di aprire cassetti polverosi..
Ero un uomo eh! Vuoi mettere?
Hai mai provato a sedici anni a dire “mi da un arcobaleno” (ghiacciolo multi gusti  più o meno definiti  nella Terra di Sotto dell’epoca)  e dire invece “un bianchino grazie !” ??
Nononono!! Non ci sta proprio un paragone.. forse la prima volta che si fa sesso..ecco, forse..

Poco importa, come ci si sente o mi sentivo. Una cosa però è certa. Avevo messo piede sulla piattaforma dove iniziava la fune che, tirata, arrivava dall’altra parte sospesa nel vuoto.

E lui fu con me quasi subito.
Ecco, questo me lo fa ricordare spesso.
I fatto che già alla terza o quarta volta che ripetevo il rito con la frase magica ed ero già passato di "livello", seduto al tavolo a guardare gli altri giocare a carte, Carlo, seduto sulla “sua” sedia , perché lui aveva una sua sedia dedicata , si, ma non per un gesto di rispetto o cosa, ma perché non si sedesse al tavolo con le persone “normali”, vestite normali, pulite normali, sbarbate normali, non come lui, e lui da quella sedia mentre si rollava la sua sigaretta mi fece..
“Ti piace il bianchino?”
Beccato!!

No che non mi piaceva dio mio! Era aspro, legnoso, ti dava i brividi quando lo buttavi giù!!
Forse la pausa che feci prima di mentire spudoratamente e dire “Si! Buono..” forse perché lui era meno pazzo di quello che dicevano, fatto sta che mi guardò fisso, e per la prima volta riuscii a mettere a fuoco quel vortice…
Con un tono neutro che più neutro non si può disse“ fa schifo”.  E un attimo dopo mi ritrovai a chiedergli : “perché lo beve allora?”
“Per farli contenti! Perché mai! E perché costa poco e io un po’ di vino buono lo prendo da un amico che me lo regala e lo bevo in santa pace a casa da solo, quando vengo qui son tutti così felici di vedermi , di vedere il nano, la donna cannone, il funambolo, che non posso non farli contenti.”

E mi spiegò.

E io capii.
Capii che gli altri ti guardano quando sei diverso, quando ti comporti in maniera diversa, quando ti comporti in maniera più libera di loro, quando non percorri le tappe a tutti destinate con la loro stessa obbedienza, ti guardano contenti per vederti cadere! Perché diventano cattivi quando gli fai capire che quella che hanno loro non è libertà.
Allora devi  fare il nano, la donna cannone, il funambolo anche…ma mai, e dico mai, fargli vedere che ci riesci.
Perché il giorno che tu cammini sulla tua fune da bravo funambolo senza paura, in modo facile, e con leggerezza arrivi dall’altra parte e riprendi il percorso di nuovo, stai tranquillo che loro con un bel coltello, una bella forbice, quella fune te la tagliano e ti fanno cadere.

"Ma.. scusa", gli dissi, "se vivendo come fai devi vivere così sempre alla berlina degli altri sempre senza che gli altri ti diano un po’ di soddisfazione, perché non vivi come loro?? Sarebbe più facile!"
"E più tranquillo anche. Se fai come loro  non occorrerebbe più preoccuparsi sempre di non cadere da quella fune!"

Lui mi guardò..e con un sorriso non so quanto di gioia o più di soddisfazione mi disse :

“Son mica matto io !”


Gli anni son passati in fretta, e io con il ricordo di Carlo il Matto ho vagato per altri posti della Terra di Sotto, a volte un occhiata Sopra, camminando più o meno bene su un filo che in un certo modo ho cercato di abbassare più possibile a terra.
Perché ho capito che la paura non sta in quella striscia bianca che si srotola davanti a te, che poi non è diversa di un colpo di gesso a terra.
Se tu devi seguire una linea tracciata a terra non fai fatica a rimanere in equilibrio, ma se quella linea, quella striscia di gesso, ipoteticamente la sollevi un po’ da terra.. sempre di più , tutto diventa difficile.
Ma la striscia non cambia, la fune non cambia, quello che cambia è quello che vediamo sotto. Quello che cambia sono i punti di riferimento che non troviamo, che cerchiamo per fermare quel roteare della vista che ci fa cercare per istinto un punto fisso per poter fermare questo movimento innaturale per i nostri sensi fisici..
Forse un “altro” senso ci darebbe modo di non cercare più questo punto fisso e ci permetterebbe di mettere a fuoco l’infinito.
E di camminare sulla fune con una pace e tranquillità come su una riga tirata sull’asfalto.


Mi son trovato dopo tanto tempo in quel vecchio bar.
Gestito oramai dai figli del vecchio proprietario.
Seduto nei nuovi tavolini alla moda e gustando un buon Franciacorta, di moda nella Terra di Sotto in quel momento, ho avuto nostalgia per quel gusto aspro, legnoso, che metteva i brividi, del bianchino di sedicenne memoria. All’improvviso tutti cominciarono ad uscire, a salutare, e a poco a poco il bar si svuotò, lasciandomi solo  con un paio di clienti che, insieme al gestore, stavano per accendere la tv.
“Alla sera sempre calma vedo tutti a cena? Chiedo al proprietario.”

“No!” Mi fa ..”è che oggi.. non ha sentito? Ci sta quell’uomo che parla alla tv.”
“Su tutte le reti ci sarà.” mi fa l’altro cliente “Quello che è su nel mondo di sopra e che, dicono, viene dal mondo di sotto e con fatica piano piano, ha superato la superficie del mare e ora che sta li e lo hanno accettato vuole fare qualcosa per il suo vecchio mondo di sotto.”
“Ma ..perché.. Tu non vai ad ascoltarlo???"

E’ stato un attimo, a cambiarmi il moto di rabbia che mi saliva da dentro e stava per sfociare in qualche epiteto più o meno santo. E’ stato un attimo davvero. Un qualcosa da lontano..un qualcuno da lontano..
Un attimo, un ricordo..allora con un sorriso più che di gioia o scherno, di soddisfazione che, guardandolo negli occhi dissi..:

“Son mica matto io !”

E uscii, per raggiungere casa mia, dove con gesto solenne tirai fuori una bottiglia di vetro dall’etichetta strappata che illustrava un tempo quello che ora non conteneva più.
Mi sedetti davanti al tramonto, sui gradini di casa  e con il cuore colmo di gioia in equilibrio su una fune, sopra un mondo intero centellinai un bianchino “da asporto.” Aspro, legnoso, ma dolce come il miele ai miei sensi ritrovati.

una vacanza al mare

Post n°12 pubblicato il 31 Luglio 2010 da paulget
Foto di paulget
La sveglia!
Giù dal letto!

Anna…ma da quando in qua ti alzi così appena suona la sveglia eh!
Magari fosse così quando devi alzarti per la scuola e fatico sempre a tirarti su di peso e con gli occhi “cispati”, per farti preparare.

Anna ha dieci anni e la scuola non c’è..eh no. Siamo in estate ed è un bel giorno d’estate.  Non un giorno qualunque.
E’ “il giorno”!
Il giorno che aspettava da un anno, da quando il papà le aveva promesso che la prossima estate finalmente avrebbe trascorso le vacanze insieme alla mamma, al mare.
Loro tre in vacanza! Al mare!  Come tanti suoi coetanei, finalmente poteva tornare a scuola e al classico tema dato dalla maestra “Racconta dove hai passato le vacanze quest’anno e aggiungici un disegno”, avrebbe potuto scrivere anche lei : - ‘‘Questa estate io e i miei genitori siamo stati UN MESE al mare…ahhhh  solo il pensiero..” E vuoi che non ti faccia alzare di scatto un pensiero così? Ma daiiii!!

Un mese a  Rimini, un mese in vacanza, dopo gli anni passati con un groppo che saliva su, su, fino ad arrivare agli occhi che nascondeva sempre, perché pur avendo solo dieci anni , era forte e vedeva che la sua famiglia non era poi “normale” come le altre.
Il padre lavorava saltuariamente oramai da un po’ e i soldi che la mamma portava a casa con i servizi  ai vicini aiutavano a far un po’ di cose. Non che a lei fosse mai mancato un qualcosa, anzi, sempre perfetta ad ogni inizio anno scolastico, sempre con gonna nuova, grembiulino pulito, libri perfetti, scarpe nuove.
Ma poi, tutte queste cose si scontravano con la realtà del tema in classe di inizio anno. Oh quante volte non avrebbe voluto alzarsi, quante volte non avrebbe voluto andarci e quante volte quando la mamma gli chiedeva cosa c’era che non andasse vedendo quegli occhi che premevano giù quella lava incandescente che saliva dal di dentro, lei rispondeva..’niente mamma, ho solo sonno’.

E aspettava. Perché il papà le aveva promesso che presto anche loro sarebbero andati in vacanza.
Ma poi arrivò la notizia. Una bellissima notizia. Che la fece ballare, saltare sul divano della nonna in preda ad una gioia incontenibile. Avrebbe avuto un fratellino! O una sorellina, gli aveva detto la mamma,  non si sa..’’ma io preferirei una sorellina forse, ma anche un fratellino,,ma si ma va bene..ma mamma come sono contenta’’..però..

Però..ora. Un pensiero si fece largo in lei mentre, da sola nella sua stanza contava i giorni che mancavano a Pasqua, con le vacanze da scuola e il pranzo dalla nonna e i giochi con gli amici della campagna che vedeva sempre così poco e che lei immaginava sempre in vacanza fra ruscelli, colline, e prati pieni di …di...di tutto quello che poteva esserci in un tema di inizio anno.
Un pensiero..un po’ triste, un po’ come un campanello d’allarme che all’improvviso suonava e ti faceva cadere dal divano in cui saltavi prima dalla gioia.
E le vacanze promesse dal padre. Ora si faranno ancora?

Ora, mentre lavandosi i denti ripensa a quei momenti, sembra tutto così lontano, come quel giorno in cui il papà aveva comunicato loro di avere trovato un lavoro al mare per tutto il periodo estivo e l’albergatore,  un amico di un suo cugino, gli aveva dato la possibilità di portare la famiglia con lui a stare per tutto il mese di agosto al mare. Al mare tutto il mese di agosto!
Sì, aveva aggiunto il padre, ‘’purtroppo non potrò stare molto con voi perché non potrò avere giorni liberi, però quando sarò libero staremo sempre insieme io tu Anna e mamma con il tuo fratellino in pancia.’’ E lei già sognava il giorno in cui avrebbe mostrato la foto al suo fratellino (si, ne era sicura era un fratellino) e gli diceva “vedi?? Qui c’eri anche tu!
Momenti belli. Ma lo sapeva.
Papà glielo aveva promesso..

Ora, mentre scendevano dalla macchina dello zio che le aveva accompagnate alla stazione, sotto il sole di quel caldo sabato che rendeva ancora più frizzante il momento, pensava a cosa avrebbe scritto anche lei nel “suo” tema.
E il suo diario  sarebbe servito..
Oh si! Aveva deciso che avrebbe annotato ogni singolo momento di quel mese nei minimi, o mimimissimi come diceva spesso lei nonostante la maestra seria per l’ennesima volta ripetesse che : “NON SI DICE MINIMISSIMO!!!”, avrebbe annotato nei minimi particolari ogni minuto di quel mese.
Il papà era già al mare da un mese e loro lo avrebbero raggiunto in treno.

Quanta gente..una marea in quella stazione così grande! A parte un viaggio di dieci minuti per arrivare dalla nonna in campagna non aveva mai preso un treno “vero”. Un treno di quelli “importanti." Eh sì..! Quelli che arrivano da Milano.
Infatti, la mamma, alla sua domanda per sapere dove stava il loro treno, le disse che dovevano aspettare ancora un po’ e che sedute nella sala d’aspetto potevano guardare il tabellone che dava il nome di tutti i treni e dovevano leggere Milano, quello su in alto a destra, il terzo dal basso.
<< Ma noi non dobbiamo andare a Milano>>
<< No tesoro, però il treno arriva da Milano.>>
Ahhh…un treno importante..

Ora, pensò fra se Anna, "lo scrivo subito sul mio diario!’’
‘’Si comincia da qua il racconto per il mio tema!’’

Allora..
Caro Diario
No..aspetta..
.<< Mamma!! Come faccio a scrivere senza mettere caro diario? >>
<< Beh..comincia con il giorno, la data se vuoi anche l’ora..poi sotto scrivi cosa stai facendo no?>>

<>
Allora……

Bologna, 2 agosto 1980.  Ore 10.25

Sono con la mamma nella sala d’aspetto della stazione! Sono così felice……
……………………………………………………………………………………………………..
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Bastardi….

sguardi....

Post n°11 pubblicato il 30 Luglio 2010 da paulget
Foto di paulget
..si guardano
Si scrutano,  si studiano.
Poi, uno allunga una mano verso l’altro, verso l’oggetto che tiene in mano.
L’altro ha uno scarto da consumato giocatore di rugby nonostante la tenera età, ed emette un gridolino che blocca le velleità del primo ma non le spegne. Tornano a guardarsi.
Fossero di un'altra razza si annuserebbero e chissà che non lo facciano davvero nel loro modo. Chissà se non lo facciamo davvero a nostro modo.
Sì, perché starei ore a guardare quei due bimbi in un parco, una scena ancora più bella perché si tratta di uno spazio, nella città che mi ha visto nascere, strappato ad un mondo antico ma troppo recente da dimenticare. Un luogo di segregazione e sperimentazione, un luogo dove fra una doccia e un elettroshock la vita scorreva tranquillamente alle spalle di una città e di una società che le voltava. Un mondo dove, forse, trovavi anche persone desiderose di guardare ancora, come si guardano questi due  bimbi.
Si guardano, si studiano, si annusano. Ne sono convinto noi ci annusiamo da bimbi o, meglio, ci annusiamo anche da grandi ma oramai con i sensi persi in quel buco misterioso, in quello scantinato raggiungibile solo con una  più o meno lunga  scala a chiocciola, un luogo che qualcuno chiama inconscio.

Cioè?  IN-conscio..? Dentro al conscio?
Qui ci vorrebbe una spiegazione da persona resa edotta dallo studio ma le parole, ne sono
sempre più convinto , racchiudono già in se una spiegazione.
Ma noi non le sentiamo più, le pronunciamo, le inseriamo come pezzi nel mosaico di una frase, di un concetto.
Ma non è forse come le cose?
Le guardiamo ma non le vediamo. Le parole le diciamo ma non le sentiamo.
La consapevolezza di cui tanto si parla,  penso sia racchiusa in questo.
Non servono libri o cd, illuminazioni più o meno celesti.
Basta “ascoltare”. Basta “saper” ascoltare. E un mondo magnifico e nuovo si apre a noi.
Ma siamo sicuri che si tratta di un mondo davvero nuovo?  O è solamente un mondo dimenticato, un mondo che abbiamo lasciato tanto tempo fa, quando sentivamo il profumo della nostra mamma ad occhi chiusi e fra mille altre mamme. Un mondo dove ci stupivamo di tutto e ci guardavamo,  ci guardavamo...

segnali di fumo...e di vita..

Post n°9 pubblicato il 29 Luglio 2010 da paulget

La tazza di caffè che sia calda o tiepida non è mai stato importante per me.
Non ci ho mai fatto un dramma. Se la scaldavo poco..la tenevo così come veniva.

Stamattina invece, complice il cielo che gli son girate le balle e ha riversato il riversabile sulla parte di Terra dove sono e  portando un arietta che definirei fresca essendo luglio, anche se di fresco ha poco, ho voglia di una tazza calda fra le mani.
Apro il portatile mentre il cielo trema e il buio cresce su me, i miei cani e il mio caffè caldo bollente. Bello!  Un momento che vorrei fermare. Sensazioni bellissime.

Apro il programma di posta e sempre immancabilmente la botta di messaggi si abbatte impietosa..
Ma mi deciderò a cancellarmi da qualche parte..si si lo faccio dopo con calma. Saranno mesi che “lo faccio dopo con calma”.
Qualcosa di un po’ più interessante, che salvo e guardo dopo, qualcosa di importante, poco, che leggo subito.
Entrando in rete mi apre automaticamente le pagine che visitavo ieri sera. Capito sui blog e con in mano la mia tazza calda che mi trasmette sensazioni mai prima avute (ma quante tazze calde mi son perso dicendo “non ha importanza”)leggo un po’ in giro sugli spazi di chi mi ha fatto visita e mi imbatto per caso,se mai il caso esista, in una frase. Appoggio la tazza.

E il tempo si ferma.
Proprio vero, le parole nello stesso momento in cui le scriviamo non sono più nostre.
Ognuno le interpreta, le vive, le pesa in maniera diversa.
Questo a volte può dar fastidio. E’ vero.
E mi fermo a pensare che forse per questo son sempre stato male quando un qualcosa, una musica, un gusto, un profumo, una parola, non veniva vista per come la vedevo io.
Ma certo..è normale. Siamo miliardi di persone diverse che possono avere storie in comune, condividerle le storie, ma non possono condividere la memoria. Quella no.
Perché la memoria è tua. È unica. Non puoi condividerla.
Il profumo del caffè con il djar appena tostato dalle donne di Dakar a me evoca ancora cose che sono diverse da quelle che evoca nel mio amico di avventure africane che, tra l’altro, ho perso di vista.  Ho perso di vista? E che vuol dire.. Non ci sentiamo più. Ahh..
Ecco cosa vuol dire. Vuol dire che un giorno ci siamo sentiti sempre meno, che un giorno ci siamo allontanati dalle nostre, per un momento, convergenti idee, che abbiamo vissuto un esperienza in maniera diversa pur essendo nello stesso posto nello stesso istante.
Ma il profumo che sentivo io nella mia memoria non era lo stesso che sentiva lui.
Avevamo una storia condivisa ma una memoria diversa. Non potevamo condividere la memoria.
Ecco perchè quando scrivevi anni fa un qualcosa veniva sempre travisato, pensavi indispettito, ma cosa hanno capito dicevi a te stesso, ma io volevo esprimere un altro concetto, un'altra storia, un'altra cosa,cosa,cosa…
Cosa vuoi esprimere.. Niente di più sbagliato. Ed è perché ho capito questo che ho ricominciato a scrivere. Ed è per questo che continuo e non alzo mai la testa dalla tastiera o, a volte, dalla penna.
Sono sgrammaticato dicevo, non sono un “letterato” ribadivo e se anche lo fossi mi manca la tecnica! Si daiii la tecnica!! Dove vai senza tecnica…ma..
Ma sbagliavo.
Non puoi scrivere per dare a qualcuno le sensazioni che provi tu. Chi legge le tue parole ha le sue di sensazioni. Tu metti delle parole. E le parole nel momento stesso in cui escono dai tuoi circuiti neuronali e arrivano alla penna, alla tastiera.. cessano di essere tue. Sono come fumo che va, va..sempre più in alto sempre più rado , fino a portare un profumo magari alla casa vicino o al cortile più in la. Un fumo che non è più il tuo. Della tua pipa, della tua sigaretta, della tua bocca.
E porta in giro un profumo che a seconda di chi lo sente è buono, sgradevole, strano,. A qualcuno evoca ricordi e pensieri. A qualcuno niente di tutto questo lo sente e basta. Qualcun altro non lo sente nemmeno tanto impegnato è a fare qualcosa mentre la vita gli scorre addosso. A qualcuno può dar fastidio.

Le parole non sono tue. Si, sono i tuoi pensieri che, però,  nel momento in cui li condividi, perdono di personalità e di realtà. Non puoi spiegare, o è molto difficile, a parole i tuoi pensieri.
Hai mai provato a raccontare un sogno cercando di far capire al tuo interlocutore realmente come era la storia ? E’ difficile. Molto difficile. E meno male aggiungo io. Perché acquistano di valore le tue parole nel momento stesso in cui suscitano un pensiero, un ricordo, o solo un interpretazione diversa.
E’ per questo che esistono i commenti, i giudizi, le parole degli altri. Per portarti in altri posti, in altre storie che tu potrai vivere e condividere. Ma la memoria no. Quella non la puoi condividere.


Il gatto miagola in modo quasi isterico, quasi un urlo e mi riporta a dove sono. Chissà da quanto sta chiamando da fuori sotto la pioggia. Guardo l’ora..è passata più di mezzora? Il tempo..non esiste proprio eh!
Il caffè!! Vedo la tazza. La prendo. Lo assaggio. E’ freddino.

Ma si! Tanto non ha importanza se è freddo o caldo, non ne ha mai avuta. Non ne ho mai fatto un dramma.

di amore, di morte, e di tagliolini..

Post n°8 pubblicato il 28 Luglio 2010 da paulget
“Gigi”…!
Ahh..che ricordi..
Quei pensieri, quei ricordi a dire il vero, che entrano nei pensieri, mentre guardi e pensi tutt’altro.

“Gigi” !  Chissà dove sarà, se gli è andata bene, se poi ha trovato il  posto nel suo mondo o se è stato spazzato via da un mondo troppo diverso dal suo di provenienza.
E se poi lo ha trovato questo posto, chissà se ci sta ancora, se ancora vive e, se non vive più, come ha vissuto fino alla fine..

Si, in effetti non so quanto vivano gli astici, perché “Gigi” all’epoca dei fatti apparteneva a quella razza destinata ad allietare le nostre serate, meglio ancora se estive e sotto la luna, insieme ai tagliolini (‘razze’ diverse in tutto ed esempio di come si può andar d’accordo anche non fra simili).

Arrivò un giorno di giugno, la data è persa nelle curve della memoria come tante cose che al momento non sembrano importanti e non ci fai caso, insieme ad altri compagni di s-ventura proveniente dal nord america.
Direi che dal nord america a Finale Ligure ci sta un mondo oltre che un oceano.
Ora che ci penso doveva essere un sabato.
Sistemato insieme a tanti altri nel frigo nella sua bella cella della morte, non mi accorsi di lui.

Ora, una piccola parentesi.
Non ho niente contro chi mangia astici, carne, etc..etc..o altro pesce fresco di giornata o come piace dire a molti “ancora vivo!” Seeee..vorrei vedere se te lo mangiavi se era ancora vivo.
Perché io i  pesci vivi li ho conosciuti. Io, i pesci vivi li ho puliti. Io agli astici vivi ho piantato un coltello nel dorso per tagliarli a metà e messi in padella mentre ancora si muovevano.
E mai! Dico mai, mi sono abituato..
Quindi questo mio, non vuole essere un discorso sulla brutalità di nutrirsi di animali, ma solo ed unicamente una storia di vita, storia vissuta in un posto chiamato Finale Ligure.

“COMANDA!! DUE TAGLIOLINI ASTICE!” grida lo chef.
Avanti, il week end andava e ogni minuto la cassa con i nord americani si faceva più vuota fra rimorsi e “chissenefrega” per esorcizzare e “tanto così è”.
Già al secondo giorno mi ero accorto che uno di loro era molto più vispo degli altri. E questa deve esser stata la sua salvezza. Infatti tendi a consumare sempre quelli che muoiono per primi..o che sono quasi..per…beh..troppo forte per qualcuno, lasciamo perdere.
Resta il fatto che lui, si, ero passato già al “lui” lo trovavo sempre lì quando aprivo il frigo con ‘ste chele alzate come dire” fatti sotto se hai coraggio!”.
E io automaticamente nella fretta lo spostavo verso il fondo e prendevo un suo compagno.
Lo trovavo a volta girato con il culo verso l’uscita del frigo.. Fu allora che, facendo una battuta con uno dei camerieri, è nata la storia di “Gigi”.
Infatti a fine servizio della domenica Linda, una delle cameriere, mi fa “Come va con il tuo amico Gigi? E’ ancora vivo??”
Non vi racconto come mano a mano che si assottigliava la schiera di astici mentre scorrevano le comande come nascondevo in fondo Gigi e come lo salutavo alla mattina. Robe da pazzi lo so.
Ma provate a farvi 12-13 ore al giorno con 30 gradi e 100, 200 coperti alla sera e poi ne riparliamo!

Dopo tre giorni Gigi era ancora vivo. E la cosa, devo dirvi,  non è proprio normalissima.
Aggrappato alla vita  nella stessa maniera in cui si aggrappava al polistirolo per uscire.

Il martedì sera era rimasto solo.
Allora presi la decisione. Chiamai il maitre e gli dissi che gli astici erano finiti. A fine serata insieme ai colleghi raccogliemmo 10 euro a testa  e comprammo Gigi.

Ora, non so se avete mai passato una serata in riva al mare, con la luna che illumina una striscia d’acqua sempre più sottile.
Non so se avete mai camminato in riva al mare al chiaro di questa striscia di sole riflesso, ma potete forse immaginarlo. E chi lo ha provato beh, sa di cosa io stia parlando.

Ma, credetemi, anche voi nottambuli delle spiagge estive con il bagno di mezzanotte “facile” , vi sareste stupiti vedendo una processione di camerieri con le braghe arrotolate con in testa un cuoco in bianco che portava un astice in mano verso il mare.
Due onde son bastate, leggere, di quelle che son più belle che fastidiose. E Gigi sparì inghiottito dal mare.

Ricordo poche cose di quel periodo, ma come mi sentii quella sera e come dormii quella notte..beh..non lo dimenticherò mai.

degli amori...e di noi.

Post n°5 pubblicato il 25 Luglio 2010 da paulget
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Sottrazione
Mi sa che è proprio quest' operazione che bisogna fare. Contraria a ogni nostra convinzione o  mentalità.
A scuola ce le hanno insegnate le sottrazioni. Penso che la maggior parte di noi non sa farne buon uso.

Oggi ho sentito per l’ennesima volta nominare una parola fra le più usate e abusate nella storia forse solo pari alla parola “dio”.
Amore…
Quanti alberi tritati ed impastati per accogliere fiumi di inchiostro con la scusa dell’amore.
Ma, di che amore si parla.
Sì, infatti io sento parlar d’amore ovunque mi giri, ovunque vada e con qualsiasi persona io sia.
Amore verso il proprio figlio o figlia, amore  verso il proprio genitore, amore nei confronti del proprio cane, gatto, canarino.
Amore per la natura, per una squadra, per un cantante o gruppo musicale.
Chi di noi non ha mai sentito dire a qualcuno o, addirittura esclamato lui stesso, “ AMO QUESTA SQUADRA! AMO QUESTO CANTANTE! AMO QUESTA CANZONE! “
Uso/abuso si diceva…
Eh già…con buona pace dei filosofi della lingua..( esisteranno??  Mah..sicuramente!)

Mi ha colpito molto l’assenza di qualcosa, di un tipo di amore in particolare. Che magari si usa, perché no, ma quasi con timidezza, con poca convinzione in confronto all’amore nei confronti di un cantante addirittura.
Un tipo di amore che basterebbe a spazzar via tanta tristezza come un refolo di vento spazza via un cumulo di neve fresca, appena “nata”.
L’amore per se stessi.
Quanto riusciamo ad amare noi stessi. Quanto mai ci siamo impegnati ad amare noi stessi.
Con la smania di vivere, di raccogliere, di costruire, di usare ogni minuto della nostra vita a riempirci le tasche di cose che alla fine, a ben vedere, non servono poi a molto.
Quanti di noi si affannano a riempirsi di cose inutili, di egoismi assurdi, di invidie ben conformi alla società in cui viviamo. Quanti di noi si riempiono, riempiono, riempiono..
Di persone, di paure, di dogmi e di paura di vivere.
Quanto aggiungiamo sempre, giorno dopo giorno. Aggiungiamo senza sapere nemmeno perché in fondo. E con la fatica di un cammino così goffo e faticoso, sempre attenti a non scivolare nel fiume della vita che scorre impietoso. E non abbiamo più il tempo e la forza per guardare le bellezze che ci circondano, i cieli sempre maestosamente vari giorno dopo giorno insieme a tutte le altre cose che realmente arricchirebbero la nostra anima.
Se poi malauguratamente nel corso della nostra camminata in riva al fiume , cadessimo in acqua, con tutti quei pesi..quanto difficile rimanere a galla..quanto difficile non sprofondare e quanto difficile tornare a galla.
Riempiti di poche cose realmente importanti forse un po’ sprofonderemo ma poi torneremmo a galla.
E le merci buone che avremo avuto con noi non si sarebbero poi tanto rovinate. Le merci buone resistono a tutto. Ah si!

Sottrarre. Bisogna sottrarre per amare se stessi e la propria anima. Come quando una pietra grezza in mano ad abili artisti diventa uno splendente diamante.
Non per aver aggiunto qualcosa..ma per aver “tirato via” qualcosa.

Solo così saremo liberi. Un po’ più liberi. Non tanto di più forse. Ma saremo liberi di donare e donarci.  Liberi di lasciar liberi.
Amare se stessi vuol dire anche questo.
Significa  anche sottrarre.

pensieri e parole..

Post n°4 pubblicato il 24 Luglio 2010 da paulget
Foto di paulget
Si parla tanto di mente universale.
La mente…
È incredibile come noi sfruttiamo una piccola parte della potenzialità del nostro cervello.
Sembra proprio uno spreco. E quel poco che usiamo lo usiamo per cose a volte pure subdole.
Questa mattina mi sono scoperto a guardare il mio cane che con gli occhi osservava il nulla , mentre mi chiedevo : Ma..sta pensando? I cani pensano? E, se si a cosa possono pensare.?
Perché all’improvviso si alza va a prendere la palla e me lo porta per giocare. Cosa lo ha fatto decidere di farlo, così, all’improvviso, come se avesse pensato :”ok..ora vado a prendere la palla e la porto ad Andrea…mmmm..dove la avevo lasciata ieri sera..ahh si in cucina “
Perché un uomo decide di prendere una strada piuttosto di un'altra, perché un uomo può usare il cervello per inventare, costruire, risolvere problemi di logica, per giocare..
Si, lo so, basta leggere un po’ di scritti sulla questione e già molte risposte trovi.
Ma non è l’energia, la tensione elettrica che passa attraverso le nostre cellule che mi interessa.
Mi affascina come un organo nella nostra testa sia così complicato e ancora così sconosciuto.
Mi affascina quanto noi possiamo fare –o disfare- con il nostro cervello..quanto possiamo pensare, analizzare, quanta potenza c’è nella nostra testa.

Non mi piacciono le armi.
A dire il vero sono sempre stato attratto dalle pistole. Ma è un attrazione come quella che abbiamo per il vuoto. Si, davvero non vi è mai capitato in cima ad un palazzo di 10 piani di aver “paura”..di sentire che ti attrae e ti fa paura? Il fatto che ci attrae ci impressiona.
Si, ho sempre avuto questa forma di sensazioni opposte con le pistole.
Chissà che meccanismo mentale innesca tutto ciò. Certo basta trovare un qualche scritto sulla questione e qualcosa in più ne saprei.
Ma non è quello che mi interessa. Mi affascina la potenza, la complessità ed insieme la perfezione che una mente umana riesce ad avere.
E pensare che tutto questo con un semplice stupido “clic” del grilletto di una pistola può improvvisamente cessare di funzionare, di esistere. In un attimo! Semplicemente con un gesto piccolo, di poca fatica fisica, di poco peso sia intellettuale che fisico.
Non hai bisogno di imparare molto per sparare in testa ad una persona per esempio.
Anche una persona piuttosto ignorante (nel senso letterale del termine) può farlo benissimo.
Ecco..forse è questo..si, ho sempre pensato che l’ignoranza sia il peggior danno per un cervello.
E di conseguenza per la vita di un uomo.
Non posso credere che in una frazione di secondo possa venir buttata nel cesso tanta potenzialità più o meno inespressa. Ma che tale bellezza e capolavoro di natura che sono le nostre sinapsi possa essere spazzato in un attimo via mi infastidisce non poco.

No, non mi piacciono le armi.