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martedì 17 agosto 2010

Di mocassini, di persone e di ombre.

Post n°17 pubblicato il 09 Agosto 2010 da paulget
Foto di paulget
Il sognatore su di una grossa moto vede sul marciapiede un collega che lui sa essere il migliore nel loro settore in città. Si accorge in quel momento in cui è roso dall'invidia,d’avere un pene lunghissimo, e sottilissimo ravvolto a fune, che gli ostacola la guida. L’ombra come il solito coprì la scena.
La sognatrice entra in un palazzo dai grandi saloni.
Nascosta, assiste al turpe lavoro che là dentro, per opera di una megera, si va compiendo: giovani donne vengono pietrificate e quella di turno, come tutte le altre, lascia fare limitandosi a chiedere che non le venga fatto sentir dolore. Un ombra oscurò la scena
 Il sognatore scorrazza spensierato e frivolo nel deserto a bordo di un carretto trainato da un cane. Si ritrova a casa dei suoi genitori, dove un sacerdote dice che nel deserto è giusto andarci solo per trovare Dio.
L’ombra arriva puntuale a chiudere il sipario avvolgendo i suoi genitori insieme al prete.


L’uomo si era alzato presto quella mattina.
Con gesti automatici e consueti aveva preparato il poco caffè “Touba” che gli era rimasto.
Donne pazienti, colorate e sorridenti avevano tostato quei chicchi miscelati con il djar e altrettanto pazientemente, con mano sapiente da una vita di automatismi insegnati e più o meno imposti, avevano separato il seme di djar piccante prima della macinatura che avrebbe reso pronto per l’uso quel caffè tanto strano quanto profumato.
Aveva acceso la radio con un gesto, che per tanto abituale e inconsapevole,  poteva essere compiuto anche dal gatto di casa. A volte il gatto lo faceva pure.
Il tempo per le abluzioni quotidiane aveva portato via gli ultimi cinque minuti prima della recita automatica del solito rito, dove “bismillah al-rahmani rahim e amin , scivolavano nell’aria come il caffè preparato o l’accensione della radio.
Quando uscì di casa, intento a pensare al discorso che avrebbe dovuto fare al suo collaboratore che il giorno prima aveva incasinato  un affare già chiuso e che lo aveva tenuto sveglio quella notte in cerca di soluzioni più o meno intelligenti e rapide, un odore di fiori e di erba bagnata lo avvolse, come una forza che vuole entrare, penetrare, o per lo meno farsi sentire parandosi davanti gridando “ehi!!! Mi vedi? Sono qui! Davanti a te! Dietro a te!

L’uomo ebbe un brivido che lo infastidì non poco facendogli  pensare quanto fosse assurdo che ci sia un fresco del genere ancora la mattina presto per poi passare il resto della giornata a ripararsi da un sole che non risparmiava niente e nessuno.
Tornò ai suoi pensieri e si avvio con passo svelto fra gli alberi mossi da una piccola brezza e i fili d’erba bagnati da una magia della notte che aveva posato il suo nutrimento sulle foglie e gli steli assetati.
Un camion che passava lo spinse ancora di più sul limite della carreggiata finendo con i suoi sandali scamosciati sull’erba bagnata. Una sgradevole sensazione lo avvolse di nuovo. Anche la rugiada ci mancava.
Ora, mentre pensava agitato se si sarebbero asciugate in tempo le macchie di bagnato sulle sue Stonefly nuove prima del suo arrivo alla riunione, ricordava le parole che la sera prima al telefono il  presidente della società in persona, un attimo prima di chiudere la comunicazione, gli aveva lasciato lì, come un discorso in sospeso, come un "ma" come un "se"..
“Sono sicuro che lei, con la sua presenza, la sua persona sempre precisa è curata, la considerazione che per questi e altri motivi gode nell’ambiente, saprà sicuramente prendere la decisione migliore per la nostra azienda.”
Esatto! E lui sarebbe dovuto arrivare con le scarpe macchiate da quell'erba bagnata. E poi cosa ci voleva a coprire con l’asfalto anche i bordi della strada.

Già prima che il progetto fosse messo in pratica, con il geologo impegnato a correre fra un punto e l’altro in vari appezzamenti di terreno, alla ricerca di una continuazione della scarica elettrica, si sapeva benissimo che un giorno si sarebbe alzato dalla sua sedia  portatile per dire:  qui! Questo è il posto adatto, qui si può scavare. Indifferentemente da dove si sarebbe trovata l'acqua, avrebbero dato il via ai lavori dell’ennesimo Château d'Eau.
Il fatto che quello fosse un terreno coltivato e che sarebbe stata completamente snaturata l’area era un problema secondario.
Il terreno, come quasi tutti, era di proprietà dello Stato e lo stato li affittava, con contratti anche di novantanove anni certo, che davano la sensazione a chi lo lavorava e ci viveva che fosse suo quasi di diritto dopo la seconda generazione.
 Lo Stato decideva. Lo Stato poteva in certi casi espropriarlo, se poi la società che doveva occuparsi dei lavori era una grande riserva di voti per il presidente in carica il gioco era fatto.
E quello scemo di ragazzo senza palle si era fatto metter i piedi in testa da una massa di contadini e allevatori proponendo dei siti alternativi e nuovi sondaggi!
Era bastata una telefonata.
Era già risolta la questione. Mancava solo il dover recuperare affidabilità agli occhi degli altri soci che partecipavano all’impresa.
L’uomo  si avviò, con questa sua bella convinzione e sicurezza alla riunione che lo aspettava, guardando di tanto in tanto i suoi bei mocassini inglesi in attesa che il caldo in arrivo facesse il suo lavoro e li riportasse alla perfezione originaria.
E con questa “speranza” si avviò verso la sede aldilà della strada, mentre il sogno assurdo fatto nell’unica ora in cui era riuscito a prender sonno, tornò nella sua mente strappandogli un sorriso per quanto irrazionale e ridicolo fosse.


La donna al volante era nervosa.
Lo sapeva! Ne era sicura!  Aveva ritardato di quei dieci minuti maledetti l’uscita da casa.
E ora il serpente di macchine che portava al centro di quella caotica metropoli la aveva avvolta fra le sue spire.
E non poteva fare altro che abbandonarsi alla corrente di quel fiume fumoso che sarebbe sfociato nella centrale piazza dell’Indipendenza.
Un ragazzino che avrà avuto dieci anni camminava con in testa un sacco di erba e di semi.
Un camion stracolmo di arachidi cercava in tutti i modi di farsi largo fra le macchine per passare nell’altra fila dove la corrente sembrava più forte.
Il semaforo, per l’ennesima volta passò da rosso a verde e lei per l’ennesima volta sentì montare la rabbia dentro. Possibile che io debba stare qui, ferma, a guardare un incrocio che non esiste più?
L’ennesimo camion diretto alla spremitura delle arachidi passò di corsia e schizzo aldilà di quel crocevia oramai senza regole. In un attimo gli fu dietro accelerando per non perdere l’“ariete” che avrebbe segnato il percorso anche a lei.
Fu un attimo. L’attimo seguente  allo scarto di lato del rimorchio davanti a lei e se lo trovò davanti.

Il ricordo, che gli sarebbe rimasto nella mente per anni, la straordinaria lucidità con cui, in quell’istante che parve eterno notò, assurdo quasi come un sogno, i mocassini color ocra ai piedi dell’uomo, mentre volava sul cofano della sua macchina per sbattere poi sul parabrezza immediatamente trasformato in una tela degna del miglior ragno.




L'uomo con i suoi mocassini oramai asciutti , decise in quel momento di attraversare quel caos di macchine e camion che gli si parava davanti.
I semafori in quei casi sono veramente “creature ornamentali”. Segnano un confine che non c’è.
E, ridicoli come possono essere solo in quell’angolo di terra che si affacciava sull’Atlantico, continuavano a cambiar colori neanche fossero alberi di Natale che aveva visto tante volte nei suoi viaggi in Europa.
Non la vide arrivare,  solo un ombra poi una forza sovrumana lo sollevò da terra e poi il colpo.
Quel colpo che non avrebbe mai dimenticato. Il mondo si oscurò, per poi esplodere in mille galassie luminose. Poi fu il buio.


Il sognatore sta scalpellando il legno di un pavimento per giungere alle venature più pure. E’ molto stanco ma un vecchio al suo fianco lo induce a continuare perché-egli dice- il Profeta ha svolto più lavoro di te. Il sognatore insiste e intanto il Vecchio muore. Il sognatore piange a dirotto e il vecchio si siede dicendogli che è contento di averlo visto piangere per lui. Dopodiché torna a morire.

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Aprì gli occhi.
Ancora scosso dall’ultimo sogno, li chiuse di nuovo come a voler tenere ferme ancora per un po’ quelle immagini. Qualcosa di strano. Qualcosa di diverso aveva attirato la sua attenzione.  L’’ultima parte del sogno era uguale ma nello stesso tempo diversa dalle altre.
Qualcosa gli sfuggiva. E strinse ancora un po’ le palpebre neanche la forza con cui avrebbe stretto fosse direttamente proporzionale al ricordo, alla possibile reminescenza che stava cercando.

Ma fu subito un tripudio di odori, di suoni.
Stava sognando di nuovo?
Aprì gli occhi e i suoni rimasero. Gli odori divennero ricordi e i ricordi lacrime.
Di gioia. Di commozione vera. Ora ricordava cosa fosse quella sensazione diversa nell’ultimo sogno. Mancava l’ombra, quella che chiudeva sempre il sipario sulle sue precedenti visioni inconsce.

Il gatto gli saltò addosso. E stirandosi come solo i gatti sanno fare emise un miagolio che non aveva mai sentito prima.
Si alzò dirigendosi verso la cucina. Sedette con la testa fra le mani, e con gesto ormai abituale, cercò la cicatrice lasciata dall’operazione con cui un chirurgo sveglio e intraprendente, mesi prima, lo strappò dal buio in cui era precipitato.
Molti mesi erano passati. E il primo risveglio a casa dopo tanti all’ospedale fu quanto di più diverso poteva aspettarsi.
Il gatto, accucciato vicino alla ciotola del cibo emise un miagolio. La voce in lontananza del muezzin arrivava ovattata dentro il "pacco" di cinguettii, di automobili che sfrecciavano veloci, di discorsi fatti ad alta voce fuori dalla bottega di calzolaio di fronte a casa sua.
Diede da mangiare alla bestiola, restando lì a fissarla  mentre gustava il suo cibo intervallato da strusciamenti fatti sulla sua gamba.
Prese il caffè Touba dal vaso. E in un attimo tutti i profumi del suo passato lo accecarono come uno schiocco di sole in una piantagione di arachidi nella periferia di Dakar.
Donne pazienti, colorate e sorridenti avevano tostato quei chicchi miscelati con il djar e altrettanto pazientemente, con mano sapiente da una vita di automatismi insegnati e in parte imposti, avevano separato il seme di djar piccante prima della macinatura che avrebbe reso pronto per l’uso quel caffè tanto strano quanto profumato.
Ora, mentre lo sorseggiava piano, sentiva inconfondibile il retro gusto piccante dato da quella spezia etiope miscelata al caffè.
Fu il caffè migliore della sua vita.
Le abluzioni durarono un’eternità.
E i “bismillah al-rahmani rahim e amin quella mattina erano muti. Non provenivano più dalla sua bocca. ma da dentro di sé.
Sentiva il suo corpo, la sua persona , distante, quasi la guardasse dal di fuori.
E mentre, in meditazione terminava la preghiera, capì.

Uscì nell’aria ancora dolcemente fresca del mattino che dava quel brivido stupendo, fra gli alberi mossi da una piccola brezza e i fili d’erba bagnati da una magia della notte che aveva posato il suo nutrimento sulle foglie e gli steli assetati. Quelle foglie ricche di rugiada dissetate da una natura, da sempre madre giusta e premurosa.
Si tolse i mocassini oramai inzuppati, e camminò a piedi scalzi fra l’erba umida, salutando con una gioia mai provata prima i bottegai che riaprivano le loro attività.
Arrivò al bivio che dava sulla statale che lo avrebbe portato verso l’ufficio dopo tanti mesi di assenza.
Ma vide l’altra strada. Quella che non aveva mai notato. Quella opposta alla direzione che era solito prendere in quel crocevia.
Quella che portava alla Langue du Barbare, quella lingua di terra che separava il fiume dall’oceano. Il luogo della sua infanzia e giovinezza, popolato di donne che  tostavano il caffè, e di uomini che si preparavano alla pesca.

Si sedette su di una pietra fra l’erba ai bordi della strada con le scarpe in mano.
Gli salì alla mente il ricordo dell’ombra  scomparsa dai suoi sogni. La rivide con gli occhi di allora ma la consapevolezza di oggi. Un po’ ridicola e un po’ minacciosa.
E lui la aveva incontrata e  accettata, e ne aveva scoperto la parte positiva.
E quella mattina, all’ospedale un po’ di giorni dopo il risveglio dal coma, lo specchio gli aveva restituito un’immagine diversa da quella cui era abituato. Gli aveva restituito ciò che lui non amava vedere. E lui quel giorno decise di guardare quell’immagine.
E la maschera, l’identità di copertura, in cui si è ciò che gli altri vogliono che noi si sia o quello che noi amiamo pensare di essere, quel giorno non prese forma.


Si mise i mocassini impolverati e a braccetto della sua nuova vita si avviò verso la costa. Di tempo ne aveva ora.
La mano nella tasca strinse forte la lettera di dimissioni che conteneva. La avrebbe consegnata più tardi.


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